La relazione tossica: come uscirne?

Una relazione è “tossica” quando crea più malesseri che benefici. Non tutte le relazioni sbilanciate sono tossiche, e forse neppure tutte le relazioni di dipendenza lo sono. Le relazioni tossiche si riconoscono da quella modalità quasi magnetica di tenere insieme persone che appartengono a universi paralleli. 


Mind games  


Una componente caratteristica delle relazioni tossiche sono i mind games, i giochi mentali. Si tratta di strategie manipolative che fanno restare nel giusto approfittando della buona fede dell’altro. I mind games sono modalità vili di tenere insieme una relazione tossica, ossia una relazione che uno dei due partner vive come altamente instabile e dolorosa. E sono modalità che non verrebbero accettate se uno dei due non temesse fortemente la separazione. 


Dunque paura dell’abbandono, della separazione, della fine della relazione sono sovente alla base delle relazioni tossiche, e sono la ragione profonda per cui è così difficile uscirne. 



Un salto nel buio


Di conseguenza, per uscire da una relazione tossica è necessario un salto nel buio. O meglio, è necessaria un’analisi dei mind games. Quale verità profonda e inconfessabile confermano, per chi a malincuore li accetta? Per quale motivo è così difficile perdere una persona che manipola la nostra buona fede? 


Le stesse domande, sia chiaro, andrebbero poste anche alla parte forte della coppia, ossia a chi deve utilizzare queste modalità per tenere a sé l’altra persona, per il resto insoddisfatta e persino impaurita. 

La via d’uscita, in una psicoterapia, si persegue anzitutto esplorando il tipo di equilibrio che una relazione tossica garantisce ai due membri della coppia. Ossia i vantaggi (paradossali) dati dal restare in una relazione che, come abbiamo detto, crea più malesseri che benefici.  

Adolescenti: il senso di colpa nel divorzio dei genitori

Non è raro che i figli vivano con un senso di fallimento personale il divorzio dei genitori. Uno dei pensieri inconfessabili, soprattutto durante l’adolescenza, riguarda l’egoismo. Ma quando arriva la colpa, perché “potevo fare di più”, lì bisogna sapersi fermare. 

Adolescenti saggi e comprensivi 


A parte alcuni casi di violenza o soprusi, gli adolescenti vivono la famiglia come un luogo di affetti e ristoro, e la lacerazione indotta dal divorzio, intendo anche nei casi di separazioni consensuali e “pacifiche”, definisce la perdita di un equilibrio.  Solitamente i figli mostrano nei confronti del divorzio atteggiamenti maturi e consapevoli, fornendo letture comprensive, specie se inconsciamente alleati con uno dei due genitori.  “I miei non vanno d’accorso, hanno fatto bene a lasciarsi”. “Mia madre sente un amico d’infanzia, mio padre esce sempre per conto suo, era ora che ci dessero un taglio”. E cose simili.

 
La posizione indulgente verso il divorzio è una forzatura difensiva, una maschera di ghiaccio che nasconde e congela sentimenti di vuoto e abbandono

La consapevolezza che si sedimenta nella memoria dell’adolescente riguarda la premura che i genitori hanno nei suoi confronti, quanto sono disposti a rinunciare per lui/lei. Quanto valgo per loro? Soprattutto con il passare del tempo, i ragazzi imparano a relativizzare i conflitti di coppia, e a inserirli in un più ampio contesto relazionale. Così appena passata la tempesta, iniziano a covare rancori, perché “Davvero a me non hanno mai pensato”. Oppure: “Non ci voleva molto, bastava avere un po’ più di buon senso, in una direzione o nell’altra”. Questo avviene soprattutto quando le relazioni con i nuovi partner vanno in crisi, e i ragazzi ripensano all’altro genitore. 


Colpa

Qui arriva la colpa. Quando le nuove relazioni finiscono, l’adolescente si chiede: “Allora potevo fare di più?”. Ed ecco che l’identificazione inconsapevole con uno dei genitori diventa rovesciamento dei ruoli, la saggezza diventa incarico di cura e accudimento, rimprovero di non aver fatto da genitore ai genitori. 
Il senso di vuoto e abbandono, quel sottile rimprovero mai esplicitato di non essere stati visti per troppo egoismo, diventa auto rimprovero, nella certezza che si poteva fare di più. 

Ecco allora che si rende necessaria una presa di consapevolezza complessiva da parte dell’adolescente, perché ciò che da subito ha vissuto come un sopruso, una lacerazione della sua stabilità, sta diventando un penso sulla coscienza, il rimprovero di non essere stato abbastanza bravo.

Pragmatismo e senso di colpa: stregati (e fregati) dagli Americani.

Se pensiamo che dovremmo essere più pragmatici, ci hanno fregato. 
L’innamoramento per la cultura americana, l’american way of life, prevede l’idealizzazione di tutto quello che viene d’oltreoceano, ma alcune cose proprio non fanno per noi, e una di queste è il pragmatismo


Football americano, Formula Indy, pena di morte

La nostra proverbiale esterofilia ci fa sentire – per partito preso – peggiori degli altri, fino a quando scopriamo che certi piatti proprio non ci vanno giù. Lì, scoppia l’orgoglio. Non c’è niente di male, le culture sono cucite addosso a chi le ha generate, e non è possibile adattarsi troppo a quelle altrui. 
Facciamo un esempio: amiamo tanto gli Americani, ma poi arricciamo il naso quando scopriamo che da loro la palla si passa con le mani, oppure che i sorpassi si fanno a sportellate.

Questi sono solo degli esempi pop, ma se citassi sensibilità più specifiche, come la pena di morte, o il porto d’armi, la nostra reazione sarebbe grosso modo la stessa. Si tratta di aspetti profondi della nostra cultura, (che condividiamo con gli altri grandi Paesi europei) a riprova del fatto che non tutta l’american way of life faccia veramente per noi. 


Pragmatismo e senso di colpa 

Un altro grande concentrato di valori e tratti indentitari americani è la filosofia del pragmatismo. Io credo che questa filosofia, o per lo meno ciò che di essa è filtrato nella cultura europea, abbia penetrato il mercato nostrano delle idee tanto quanto la Coca-Cola, o le sigarette, quello dei beni di consumo. 


La prova di quanto dico sta in quella forma di lieve senso di colpa che ci prende quando sospirando diciamo: “Ecco, dovremmo essere più pragmatici. ”. Il pragmatismo non deve diventare una regola di vita. La specificità dell’individuo si fonda sulla sua personalità, i suoi interessi, ma anche sulle sue passioni, i suoi desideri, e i suoi sogni, attuali e futuri. 


Ragionare in termini pragmatici, invece, per quanto aiuti a focalizzarsi sul presente e a razionalizzare gli sforzi, svuota l’essere umano da tutti quegli spetti che ne caratterizzano la vitalità. L’individuo angosciato, preda della depressione, è in definitiva un individuo senza entusiasmo, senza passioni. Per questo è molto importante alimentare, non smorzare, gli slanci idealistici, passionali. Se a volte ci capita di pensare che dovremmo essere più pragmatici, ci hanno fregato. È anzi vero il contrario: se lo fossimo di meno, saremmo più felici. 

Pseudo adattamento: il migrante lacerato tra la cultura madre e la nuova condizione matrigna.

Ogni migrante vive una lacerazione interna: tra l’identità della sua terra di origine, a cui sente profondamente di appartenere, e che non vuole tradire, e l’identità del luogo che lo ha (più o meno calorosamente) accolto. Mi riferisco qui sia ai migranti che lasciano Paesi lontani per raggiungere il ricco (ai loro occhi) Occidente, sia ai migranti domestici, che si spostano all’interno dello stesso Paese, per ricongiungere un amore, o per motivi di studio o lavoro.    

Questa lacerazione interna può trovare diverse forme di integrazione. Può esserci un’adesione totale al nuovo, con rigetto di tutte le componenti della cultura di provenienza. In questo caso l’individuo supera la nostalgia considerando la sua terra come antiquata, sorpassata, incapace di stare al passo con i tempi. Può esserci il rifiuto: il migrante trasferisce al nuovo domicilio soltanto il proprio corpo, ma continua a parlare e pensare nella vecchia lingua (o dialetto) a vivere da lontano le dinamiche della sua città, a relazionarsi con i vecchi amici come se non fosse mai partito. 

Infine c’è lo pseudo adattamento, la condizione più deleteria. 

Pseudo adattamento

Potrei chiamare pseudo adattamento quella situazione in cui il migrante si conforma al nuovo contesto, ma solamente in forma superficiale, esteriore. 

L’individuo sente che partire è stata la scelta giusta, sente che è giusto mostrare rispetto, e in qualche modo gratitudine per il nuovo contesto, ma la nostalgia di casa è troppo forte. Questa nostalgia è penosa, talvolta drammatica, e crea nella mente del migrante una frammentazione a strati. Ad un livello superficiale egli parla come i suoi nuovi concittadini, assimila modi di dire, espressioni gergali, e sente la nuova città come propria. Ad un livello più profondo, però, rimpiange la sua casa, i suoi amici, i bei tempi andati. I suoi sogni sono popolati dagli odori della cucina tradizionale, dai suoni, dai canti della sua terra. L’identità del migrante pseudo adattato è un puzzle di tessere dispari, destabilizzata dall’incapacità di incollare tra loro le diverse anime della sua nuova vita. 

Telaio e uncinetto 

Il migrante pseudo adattato deve fare un lavoro di artigianato. Trovare il giusto compromesso tra le parti dell’identità significa dare a ognuna il suo spazio, riconoscere che nessuna può dominare sull’altra/le altre. 

Lo studente che da Monza si trasferisce a Bari per un corso di aggiornamento, come il migrante che arriva a Cogne dal Benin, devono sapere che non è possibile cancellare con un viaggio una storia, una vita, una rete di legami. Il lavoro che dovrà fare il migrante, o dovrà fare qualcuno per lui, è quello del PR: dovrà organizzare incontri. Perché nella nostra mente non possono esserci parti che si ignorano a vicenda.