L’eiaculazione precoce è un problema? Ecco cosa puoi fare.

Circa un uomo su tre è incorso, almeno una volta nella vita, in questo spiacevole inconveniente. L’eiaculazione precoce è qualcosa di più di un semplice disturbo, perché tocca nell’intimo chi ne soffre, avvilisce la coppia, e soprattutto ferisce il/la partner, che poi è la vera vittima di questa problematica di cui non ha colpa.  

Sei troppo bella 

La prima cosa che si fa, quando si presenta un episodio di eiaculazione precoce, è cercare delle scuse. Credo sia certamente comprensibile dal punto di vista umano, e direi anche una inevitabile e genuina difesa della propria virilità. Sarebbe penoso, infatti, dover ammettere delle responsabilità, in una situazione già di per sé così fortemente imbarazzante. 

Ma a volte, come dice il detto, la toppa è peggio del buco. Questo perché cercare delle scuse blinda la posizione di chi invece dovrebbe fare autocritica, e trovare il modo per superare questo impasse. Lo mette al sicuro, gli consente di cadere in piedi dicendo “non è colpa mia”. Inoltre, e questa è davvero la peggiore delle conseguenze, la classica accusa, travestita da complimento, “sei troppo bella”, scarica le colpa sul/la partner, che si vede beffata due volte. 

Alcune/i di questi partner, infatti, reagiscono con ironia, altri scrivendo subito alle amiche, o peggio a potenziali amanti, ma altri ancora iniziano a covare un senso di inadeguatezza, di sfiducia, di bassa autostima.  

Cosa fare?

L’eiaculazione precoce, quando non è occasionale, è sovente un fatto di significati. Tutti attribuiamo un significato a quello che facciamo, intendo anche significati impliciti, non del tutto chiari neppure a noi stessi, se non nel loro aspetto più generale, per non dire superficiale. 

Così frequentiamo un ristorante dimenticando (apparentemente) che in quella via si sono incontrati i nostri genitori, oppure amiamo un profumo che ci lega a qualche ricordo d’infanzia, che però non sappiamo definire con precisione, e così via. 

Quando l’apparato genitale è privo di disturbi organici, la disfunzione è molto probabilmente legata a qualche significato profondo che a tutta prima ignoriamo. 

Al di là dei consigli pratici che si trovano su ogni sito, quindi, diventa importante indagare proprio quel significato: non solo è il vero responsabile del nostro comportamento, ma è la garanzia certificata che si ripeterà nuovamente, anche con un’altra persona. E non importa quale scusa riusciremo a inventare, o quale lusinga a immaginare. 

Laureati: come trovare lavoro?

Laureato e intellettuale

La formazione universitaria lascia una competenza tecnica (le conoscenze professionali in un certo ambito), e una competenza strategica (saper impiegare tatticamente tali conoscenze, per poter affrontare casi specifici).
Ne discende che al termine di un percorso di laurea uno studente abbia sviluppato parallelamente almeno due diverse capacità, una direttamente collegata all’oggetto di studio, l’altra al suo utilizzo. 
Proprio questa capacità di utilizzare la conoscenza andrebbe presa in esame quando ci si mette alla ricerca di un impiego, perché lo sappiamo bene, il mercato del lavoro è cambiato, e la mansione pura non esiste quasi più. 


Tutti influencer  

La smania con cui molti laureati si scatenano a pubblicare video online, è la cifra dell’illusione di avere grandi risultati con minimi sforzi. Se questo è vero per alcuni fortunati, non può, tuttavia, valere per tutti, e in linea di massima per avere successo, anche poco, è sempre necessario faticare molto, moltissimo. 
È stato così per i grandi musicisti, per i poeti e gli scienziati di ogni tempo, è così anche oggi, che la globalizzazione ha azzerato le distanze, e aumentato esponenzialmente, come vediamo ogni giorno, l’aggressività. 
Quando il laureato si mette alla ricerca di un impiego, quindi, dovrebbe anzitutto fare due operazioni. La prima è non dare per scontato che l’ambito di questo lavoro sia quello della sua formazione. L’università è anzitutto una maestra, e insegna a usare la testa. La seconda, partire dall’analisi del contesto di riferimento. E qui intendo quello fisico, non quello virtuale, dato che a parte il lavoro di influencer tutti gli altri lavori si svolgono in uno spazio e in un tempo ben definiti. 


Cosa so fare?


La ricerca di un lavoro, così, è sempre più un chiedersi: con le mie caratteristiche, le mie competenze e i miei interessi (ossia con le competenze che oggi non ho, ma che potrei avere domani) quale mansione potrei ricoprire? In quel ambito potrei apportare un mio contributo? 


L’abbiamo detto, il lavoro è cambiato. Per questo deve cambiare drasticamente anche l’atteggiamento verso il lavoro, a partire dalla fase in cui si entra nel mercato e si cerca un impiego, ossia in cui si offre la propria competenza di saper fare qualcosa. 

Umberto Eco, Bauman e Wagner: la fine della liquidità e il nuovo Umanesimo.

In uno scritto del 2015 Umberto Eco citava Bauman e si chiedeva cosa avrebbe sostituito la grande liquefazione, a cui entrambi stavano assistendo. Oggi (2023) abbiamo le idee più chiare: la società liquida, come per raffreddamento, si è scomposta in migliaia di frammenti, anzi milioni, e ai soggetti contemporanei non resta che guadarsi da lontano, delle loro micro isole, e comunicare tramite smartphone.  


La spinta principale in questa direzione è arrivata dalla pandemia, che ha acuito le distanze sociali tra tutti, ricchi e poveri, più istruiti e meno, chi abita territori con maggiori servizi e chi no, ecc…  La pandemia ha innescato problematiche relazionali e psichiche del tutto nuove, come la paura per il corpo, il contatto fisico, la prossimità, o patologie del carattere, o disturbi del sonno, tutte se vogliamo legate all’uso smodato dello smartphone. 


E poi c’è la frammentazione politica, sociale ed economica, data dalle guerre, dalle migrazioni, dal rifiuto dell’ordine mondiale costituito, da parte di miliardi di esseri umani che si organizzano con apparati alternativi.  
La grande frammentazione ha preso il posto della liquefazione, e alla società liquida si sta sostituendo una società fortemente frammentata. In tutto, e infatti vediamo anche una progressiva frammentazione psichica del soggetto del nostro tempo.   


Come se ne esce? Nello scritto citato, Umberto Eco lamentava l’assenza della politica e la pigrizia dell’intellighenzia. Che la politica sia assente dalle grandi discussioni epocali non deve sorprendere, è così dai tempi di Platone. Il populismo, del resto, non prevede pensiero, ma solo invettiva istintuale. L’intellighenzia è pigra? Quando i filosofi smetteranno di fare convegni su Spengler, saremo già tramontati tutti. Quando smetteranno di chiedersi se Heidegger fosse nazista o meno, sarà arrivata un’altra Shoah


La verità è che serve da subito un rinnovato istinto umanista. Non esistono razze, non esistono forse neppure culture. Esiste un unico genere umano, che sta colonizzando il mondo, ne sta spremendo le risorse, e fra poco scatenerà conflitti per contendersi il poco rimasto. Ecco secondo me la vera svolta post liquidità, la rifondazione dell’Umanesimo


Mettere l’uomo, le sue esigenze, anche psichiche, al centro di ogni discussione. E va fatto subito, prima che l’onda lunga del post pandemia travolga tutti con la sua coda di diffidenze, perché incontrare l’altro non porta solo la diffusione del Covid o l’intrusione traumatica.  E va fatto subito, per dimostrare a Umberto Eco, o ai suoi eredi spirituali, che Zigmund Bauman non è solo una “vox clamantis in deserto”. 

Pragmatismo e senso di colpa: stregati (e fregati) dagli Americani.

Se pensiamo che dovremmo essere più pragmatici, ci hanno fregato. 
L’innamoramento per la cultura americana, l’american way of life, prevede l’idealizzazione di tutto quello che viene d’oltreoceano, ma alcune cose proprio non fanno per noi, e una di queste è il pragmatismo


Football americano, Formula Indy, pena di morte

La nostra proverbiale esterofilia ci fa sentire – per partito preso – peggiori degli altri, fino a quando scopriamo che certi piatti proprio non ci vanno giù. Lì, scoppia l’orgoglio. Non c’è niente di male, le culture sono cucite addosso a chi le ha generate, e non è possibile adattarsi troppo a quelle altrui. 
Facciamo un esempio: amiamo tanto gli Americani, ma poi arricciamo il naso quando scopriamo che da loro la palla si passa con le mani, oppure che i sorpassi si fanno a sportellate.

Questi sono solo degli esempi pop, ma se citassi sensibilità più specifiche, come la pena di morte, o il porto d’armi, la nostra reazione sarebbe grosso modo la stessa. Si tratta di aspetti profondi della nostra cultura, (che condividiamo con gli altri grandi Paesi europei) a riprova del fatto che non tutta l’american way of life faccia veramente per noi. 


Pragmatismo e senso di colpa 

Un altro grande concentrato di valori e tratti indentitari americani è la filosofia del pragmatismo. Io credo che questa filosofia, o per lo meno ciò che di essa è filtrato nella cultura europea, abbia penetrato il mercato nostrano delle idee tanto quanto la Coca-Cola, o le sigarette, quello dei beni di consumo. 


La prova di quanto dico sta in quella forma di lieve senso di colpa che ci prende quando sospirando diciamo: “Ecco, dovremmo essere più pragmatici. ”. Il pragmatismo non deve diventare una regola di vita. La specificità dell’individuo si fonda sulla sua personalità, i suoi interessi, ma anche sulle sue passioni, i suoi desideri, e i suoi sogni, attuali e futuri. 


Ragionare in termini pragmatici, invece, per quanto aiuti a focalizzarsi sul presente e a razionalizzare gli sforzi, svuota l’essere umano da tutti quegli spetti che ne caratterizzano la vitalità. L’individuo angosciato, preda della depressione, è in definitiva un individuo senza entusiasmo, senza passioni. Per questo è molto importante alimentare, non smorzare, gli slanci idealistici, passionali. Se a volte ci capita di pensare che dovremmo essere più pragmatici, ci hanno fregato. È anzi vero il contrario: se lo fossimo di meno, saremmo più felici. 

Pseudo adattamento: il migrante lacerato tra la cultura madre e la nuova condizione matrigna.

Ogni migrante vive una lacerazione interna: tra l’identità della sua terra di origine, a cui sente profondamente di appartenere, e che non vuole tradire, e l’identità del luogo che lo ha (più o meno calorosamente) accolto. Mi riferisco qui sia ai migranti che lasciano Paesi lontani per raggiungere il ricco (ai loro occhi) Occidente, sia ai migranti domestici, che si spostano all’interno dello stesso Paese, per ricongiungere un amore, o per motivi di studio o lavoro.    

Questa lacerazione interna può trovare diverse forme di integrazione. Può esserci un’adesione totale al nuovo, con rigetto di tutte le componenti della cultura di provenienza. In questo caso l’individuo supera la nostalgia considerando la sua terra come antiquata, sorpassata, incapace di stare al passo con i tempi. Può esserci il rifiuto: il migrante trasferisce al nuovo domicilio soltanto il proprio corpo, ma continua a parlare e pensare nella vecchia lingua (o dialetto) a vivere da lontano le dinamiche della sua città, a relazionarsi con i vecchi amici come se non fosse mai partito. 

Infine c’è lo pseudo adattamento, la condizione più deleteria. 

Pseudo adattamento

Potrei chiamare pseudo adattamento quella situazione in cui il migrante si conforma al nuovo contesto, ma solamente in forma superficiale, esteriore. 

L’individuo sente che partire è stata la scelta giusta, sente che è giusto mostrare rispetto, e in qualche modo gratitudine per il nuovo contesto, ma la nostalgia di casa è troppo forte. Questa nostalgia è penosa, talvolta drammatica, e crea nella mente del migrante una frammentazione a strati. Ad un livello superficiale egli parla come i suoi nuovi concittadini, assimila modi di dire, espressioni gergali, e sente la nuova città come propria. Ad un livello più profondo, però, rimpiange la sua casa, i suoi amici, i bei tempi andati. I suoi sogni sono popolati dagli odori della cucina tradizionale, dai suoni, dai canti della sua terra. L’identità del migrante pseudo adattato è un puzzle di tessere dispari, destabilizzata dall’incapacità di incollare tra loro le diverse anime della sua nuova vita. 

Telaio e uncinetto 

Il migrante pseudo adattato deve fare un lavoro di artigianato. Trovare il giusto compromesso tra le parti dell’identità significa dare a ognuna il suo spazio, riconoscere che nessuna può dominare sull’altra/le altre. 

Lo studente che da Monza si trasferisce a Bari per un corso di aggiornamento, come il migrante che arriva a Cogne dal Benin, devono sapere che non è possibile cancellare con un viaggio una storia, una vita, una rete di legami. Il lavoro che dovrà fare il migrante, o dovrà fare qualcuno per lui, è quello del PR: dovrà organizzare incontri. Perché nella nostra mente non possono esserci parti che si ignorano a vicenda.