Laureati: come trovare lavoro?

Laureato e intellettuale

La formazione universitaria lascia una competenza tecnica (le conoscenze professionali in un certo ambito), e una competenza strategica (saper impiegare tatticamente tali conoscenze, per poter affrontare casi specifici).
Ne discende che al termine di un percorso di laurea uno studente abbia sviluppato parallelamente almeno due diverse capacità, una direttamente collegata all’oggetto di studio, l’altra al suo utilizzo. 
Proprio questa capacità di utilizzare la conoscenza andrebbe presa in esame quando ci si mette alla ricerca di un impiego, perché lo sappiamo bene, il mercato del lavoro è cambiato, e la mansione pura non esiste quasi più. 


Tutti influencer  

La smania con cui molti laureati si scatenano a pubblicare video online, è la cifra dell’illusione di avere grandi risultati con minimi sforzi. Se questo è vero per alcuni fortunati, non può, tuttavia, valere per tutti, e in linea di massima per avere successo, anche poco, è sempre necessario faticare molto, moltissimo. 
È stato così per i grandi musicisti, per i poeti e gli scienziati di ogni tempo, è così anche oggi, che la globalizzazione ha azzerato le distanze, e aumentato esponenzialmente, come vediamo ogni giorno, l’aggressività. 
Quando il laureato si mette alla ricerca di un impiego, quindi, dovrebbe anzitutto fare due operazioni. La prima è non dare per scontato che l’ambito di questo lavoro sia quello della sua formazione. L’università è anzitutto una maestra, e insegna a usare la testa. La seconda, partire dall’analisi del contesto di riferimento. E qui intendo quello fisico, non quello virtuale, dato che a parte il lavoro di influencer tutti gli altri lavori si svolgono in uno spazio e in un tempo ben definiti. 


Cosa so fare?


La ricerca di un lavoro, così, è sempre più un chiedersi: con le mie caratteristiche, le mie competenze e i miei interessi (ossia con le competenze che oggi non ho, ma che potrei avere domani) quale mansione potrei ricoprire? In quel ambito potrei apportare un mio contributo? 


L’abbiamo detto, il lavoro è cambiato. Per questo deve cambiare drasticamente anche l’atteggiamento verso il lavoro, a partire dalla fase in cui si entra nel mercato e si cerca un impiego, ossia in cui si offre la propria competenza di saper fare qualcosa. 

La relazione tossica: come uscirne?

Una relazione è “tossica” quando crea più malesseri che benefici. Non tutte le relazioni sbilanciate sono tossiche, e forse neppure tutte le relazioni di dipendenza lo sono. Le relazioni tossiche si riconoscono da quella modalità quasi magnetica di tenere insieme persone che appartengono a universi paralleli. 


Mind games  


Una componente caratteristica delle relazioni tossiche sono i mind games, i giochi mentali. Si tratta di strategie manipolative che fanno restare nel giusto approfittando della buona fede dell’altro. I mind games sono modalità vili di tenere insieme una relazione tossica, ossia una relazione che uno dei due partner vive come altamente instabile e dolorosa. E sono modalità che non verrebbero accettate se uno dei due non temesse fortemente la separazione. 


Dunque paura dell’abbandono, della separazione, della fine della relazione sono sovente alla base delle relazioni tossiche, e sono la ragione profonda per cui è così difficile uscirne. 



Un salto nel buio


Di conseguenza, per uscire da una relazione tossica è necessario un salto nel buio. O meglio, è necessaria un’analisi dei mind games. Quale verità profonda e inconfessabile confermano, per chi a malincuore li accetta? Per quale motivo è così difficile perdere una persona che manipola la nostra buona fede? 


Le stesse domande, sia chiaro, andrebbero poste anche alla parte forte della coppia, ossia a chi deve utilizzare queste modalità per tenere a sé l’altra persona, per il resto insoddisfatta e persino impaurita. 

La via d’uscita, in una psicoterapia, si persegue anzitutto esplorando il tipo di equilibrio che una relazione tossica garantisce ai due membri della coppia. Ossia i vantaggi (paradossali) dati dal restare in una relazione che, come abbiamo detto, crea più malesseri che benefici.  

Adolescenti: il senso di colpa nel divorzio dei genitori

Non è raro che i figli vivano con un senso di fallimento personale il divorzio dei genitori. Uno dei pensieri inconfessabili, soprattutto durante l’adolescenza, riguarda l’egoismo. Ma quando arriva la colpa, perché “potevo fare di più”, lì bisogna sapersi fermare. 

Adolescenti saggi e comprensivi 


A parte alcuni casi di violenza o soprusi, gli adolescenti vivono la famiglia come un luogo di affetti e ristoro, e la lacerazione indotta dal divorzio, intendo anche nei casi di separazioni consensuali e “pacifiche”, definisce la perdita di un equilibrio.  Solitamente i figli mostrano nei confronti del divorzio atteggiamenti maturi e consapevoli, fornendo letture comprensive, specie se inconsciamente alleati con uno dei due genitori.  “I miei non vanno d’accorso, hanno fatto bene a lasciarsi”. “Mia madre sente un amico d’infanzia, mio padre esce sempre per conto suo, era ora che ci dessero un taglio”. E cose simili.

 
La posizione indulgente verso il divorzio è una forzatura difensiva, una maschera di ghiaccio che nasconde e congela sentimenti di vuoto e abbandono

La consapevolezza che si sedimenta nella memoria dell’adolescente riguarda la premura che i genitori hanno nei suoi confronti, quanto sono disposti a rinunciare per lui/lei. Quanto valgo per loro? Soprattutto con il passare del tempo, i ragazzi imparano a relativizzare i conflitti di coppia, e a inserirli in un più ampio contesto relazionale. Così appena passata la tempesta, iniziano a covare rancori, perché “Davvero a me non hanno mai pensato”. Oppure: “Non ci voleva molto, bastava avere un po’ più di buon senso, in una direzione o nell’altra”. Questo avviene soprattutto quando le relazioni con i nuovi partner vanno in crisi, e i ragazzi ripensano all’altro genitore. 


Colpa

Qui arriva la colpa. Quando le nuove relazioni finiscono, l’adolescente si chiede: “Allora potevo fare di più?”. Ed ecco che l’identificazione inconsapevole con uno dei genitori diventa rovesciamento dei ruoli, la saggezza diventa incarico di cura e accudimento, rimprovero di non aver fatto da genitore ai genitori. 
Il senso di vuoto e abbandono, quel sottile rimprovero mai esplicitato di non essere stati visti per troppo egoismo, diventa auto rimprovero, nella certezza che si poteva fare di più. 

Ecco allora che si rende necessaria una presa di consapevolezza complessiva da parte dell’adolescente, perché ciò che da subito ha vissuto come un sopruso, una lacerazione della sua stabilità, sta diventando un penso sulla coscienza, il rimprovero di non essere stato abbastanza bravo.

L’autosabotaggio

L’autosabotaggio seriale è la conferma di un’ipotesi su di sé. 

Alcuni individui attuano regolarmente comportamenti che fanno saltare piani ormai conclusi: sono i peggiori nemici di loro stessi. 

Questi individui sono scissi tra due o più idee che li riguardano: si tratta di teorie che si escludono a vicenda, e che pertanto sono fonte di travaglio e sofferenza.

(Preciso che sto parlando dell’autosabotaggio seriale perché un singolo evento di autosabotaggio potrebbe essere un fatto di autodifesa, come un lapsus o un atto mancato, ma è fatto più raro, e dal mio punto di vista non patologico, non patogeno, non degno di particolare attenzione.)  

‘Io non sono capace’

Una di queste teorie recita cose del tipo: ‘tu sei un buono a nulla’ oppure ‘chi ti credi di essere, non sei nessuno’ o ‘non sei mai stato capace di fare cose di questo tipo’ ecc… Si tratta di teorie che negano il valore individuale, sono svalutanti o denigranti. Questa narrazione interna convive, da qui arriva il disagio, con un’altra (o più d’una) che al contrario è positiva, che sottolinea la forza e la competenza dell’individuo, che afferma la sua bravura o abilità in qualche ambito. Queste due (o più) teorie, come si vede, non possono convivere. Se intendo, poniamo, scalare una montagna, ma dentro di me c’è un’idea fissa che dice ‘non ci riuscirai mai, chi ti credi di essere’, e al contempo ce n’è un’altra che dice ‘sei bravissimo, ce l’hanno fatta in molti, puoi farcela anche tu’, a chi devo dare ascolto? Se riuscirò nell’impresa dovrò sconfessare una delle due, se non ci riuscirò dovrò sconfessare l’altra. 

Identificazione inconsapevole

Gli autosabotatori hanno sovente avuto un genitore svalutante, violento/aggressivo o denigrante/infamante. (Dico genitore ma intendo caregiver o Altro significativo, non è necessariamente detto che si tratti di un genitore, anche se per lo più è così.) 

La deprivazione affettiva, la spoliazione, o l’intrusione parentale realizzata dal genitore (suo malgrado, molto probabilmente) ha condotto il figlio ad una sorta di identificazione inconsapevole. Il figlio prende le distanze dal genitore, talvolta in maniera netta, se non violenta, ma ne è invaso: la sua identità ne è costituita, la sua personalità ha fatto proprie le teorie del genitore svalutante

L’identificazione inconsapevole con il genitore deprivante, elemento costitutivo  degli spoilt children, è alla base dell’autosabotaggio. 

Il progetto di vita dell’autosabotatore deve essere cambiato anzitutto estraendo dalla sua personalità, dalla sua narrazione interna, la parte costituita da quel ‘tu non sei capace’ che non gli appartiene, e che è frutto del troppo amore che egli ha avuto per quel genitore inadeguato, ma col quale egli è così fortemente identificato. 

Pseudo adattamento: il migrante lacerato tra la cultura madre e la nuova condizione matrigna.

Ogni migrante vive una lacerazione interna: tra l’identità della sua terra di origine, a cui sente profondamente di appartenere, e che non vuole tradire, e l’identità del luogo che lo ha (più o meno calorosamente) accolto. Mi riferisco qui sia ai migranti che lasciano Paesi lontani per raggiungere il ricco (ai loro occhi) Occidente, sia ai migranti domestici, che si spostano all’interno dello stesso Paese, per ricongiungere un amore, o per motivi di studio o lavoro.    

Questa lacerazione interna può trovare diverse forme di integrazione. Può esserci un’adesione totale al nuovo, con rigetto di tutte le componenti della cultura di provenienza. In questo caso l’individuo supera la nostalgia considerando la sua terra come antiquata, sorpassata, incapace di stare al passo con i tempi. Può esserci il rifiuto: il migrante trasferisce al nuovo domicilio soltanto il proprio corpo, ma continua a parlare e pensare nella vecchia lingua (o dialetto) a vivere da lontano le dinamiche della sua città, a relazionarsi con i vecchi amici come se non fosse mai partito. 

Infine c’è lo pseudo adattamento, la condizione più deleteria. 

Pseudo adattamento

Potrei chiamare pseudo adattamento quella situazione in cui il migrante si conforma al nuovo contesto, ma solamente in forma superficiale, esteriore. 

L’individuo sente che partire è stata la scelta giusta, sente che è giusto mostrare rispetto, e in qualche modo gratitudine per il nuovo contesto, ma la nostalgia di casa è troppo forte. Questa nostalgia è penosa, talvolta drammatica, e crea nella mente del migrante una frammentazione a strati. Ad un livello superficiale egli parla come i suoi nuovi concittadini, assimila modi di dire, espressioni gergali, e sente la nuova città come propria. Ad un livello più profondo, però, rimpiange la sua casa, i suoi amici, i bei tempi andati. I suoi sogni sono popolati dagli odori della cucina tradizionale, dai suoni, dai canti della sua terra. L’identità del migrante pseudo adattato è un puzzle di tessere dispari, destabilizzata dall’incapacità di incollare tra loro le diverse anime della sua nuova vita. 

Telaio e uncinetto 

Il migrante pseudo adattato deve fare un lavoro di artigianato. Trovare il giusto compromesso tra le parti dell’identità significa dare a ognuna il suo spazio, riconoscere che nessuna può dominare sull’altra/le altre. 

Lo studente che da Monza si trasferisce a Bari per un corso di aggiornamento, come il migrante che arriva a Cogne dal Benin, devono sapere che non è possibile cancellare con un viaggio una storia, una vita, una rete di legami. Il lavoro che dovrà fare il migrante, o dovrà fare qualcuno per lui, è quello del PR: dovrà organizzare incontri. Perché nella nostra mente non possono esserci parti che si ignorano a vicenda.