Cosa non ha funzionato del femminismo? La risposta sbagliata ad una giusta domanda.

Oggi nel mondo la politica è un fatto sostanzialmente maschile, la religione è un fatto sostanzialmente maschile, i grandi gruppi economici sono gestiti sostanzialmente al maschile. Dovremmo concludere, senza troppa retorica, che il femminismo ha fallito? 

Da Simone de Beauvoir alle Pussy Riot

Il punto di partenza di ogni filosofia femminista è dimostrare che i generi non hanno un ordine di importanza, e non è dal genere che discende il peso che uno acquisisce nella società. 

Tuttavia i femminismi si declinano solitamente in azioni che paradossalmente negano la parità e sostengono la superiorità femminile. La conseguenza è un irrigidimento delle posizioni, ossia un aumento della conflittualità anziché una sua diminuzione. 

Il muro contro muro conduce la parte forte ad arroccarsi sui privilegi consolidati per spostare il focus dello scontro su altri livelli, diversi da quelli in questione. Trovo eccezionali a tale proposito le parole di Lorenza Foschini, grande giornalista Rai.  Dopo essere giunte, insieme ad altre grandi firme femminili, a condurre i TG della sera, alla metà degli anni Novanta si accorsero che i direttori di testata, di rete e i direttori generali erano tutti uomini. ‘A quel punto’ disse la Foschini ‘abbiamo capito di essere state giocate: il potere non stava nel leggere il Tg, come per anni ci avevano fatto capire.’

Così ai tempi di Chiara Ferragni, come a quelli di Simone de Beauvoir, ai grandi propositi, ai grandi discorsi, fanno seguito proposte spartane, urlate, non ragionate. Valga per tutte quella delle famose incursioni delle ‘Pussy Riot’, le ragazze che nude aggrediscono personaggi famosi. Le reazioni che scatenano queste proteste sono più estreme e rigide delle intenzioni che le hanno originate.

Femminismo da piazza e da salotto.

La contrapposizione muro contro muro cementa l’identità, ma è una forzatura nazional populista dei presupposti del femminismo. Non c’è una sola rima in Christine de Pizan, una sola pagina di Simone de Beauvoir, un solo accenno nell’intera opera di Julia Kristeva che ammicchi allo scontro, alla contrapposizione, all’invettiva di piazza. 

Dividere i femminismi in quelli da piazza e quelli da salotto è un modo per fare del male al femminismo, e per rafforzare, in sostanza, le posizioni dello status quo.

L’errore strategico del femminismo, perciò, è stato quello di volgarizzare lo scontro, di esacerbare le distanze, di chiedere riconoscimento di diritti sotto minaccia (sovente di stampo sessuale) dimenticando che nel rapporto tra generi uno sa ancora fare molto male, come  mostrano i dati sul femminicidio.  

E’ ancora tempo di femminismo?

Oggi nel mondo, come dicevo, la politica, le religioni, il potere economico sono gestiti sostanzialmente al maschile. La nostra cultura, se vuole davvero essere la più liberale, deve trovare il modo di garantire la pari dignità a tutti i cittadini, come peraltro va affermando nei suoi principi generali. 

Ritengo che il movimento femminista debba anzitutto liberarsi dai connotati ‘sessisti’, perché la libertà della donna non può essere un obiettivo delle donne, ma di tutta la società. Ripulire dal dibattito gli elementi di scontro significa eliminare per esempio termini come ‘maschilismo’, ‘patriarcato’, o lo stesso termine ‘femminismo’. Favorire l’incontro significa sfavorire lo scontro. 

Ancora una volta il ragionamento converge su Julia Kristeva, la sua opera, il suo sforzo di unire il buono che c’è nelle religioni, nelle filosofie, nella psicoanalisi: il ritorno all’umano. Nello scontro di società che sotto traccia serpeggia nel nostro tempo potrebbe essere proprio la questione del femminile a spostare l’ago della bilancia della storia. Qualcuno si sente pronto?

Il tossicodipendente e la madre disfunzionale

Vorrei mettere in evidenza una delle dinamiche tipiche della tossicodipendenza: il rapporto espulsivo/aggressivo del soggetto tossicodipendente con la madre disfunzionale. 

In alcuni casi il rapporto con la madre, soprattutto se depressa o instabile emotivamente, può assumere la caratteristica di una battaglia per la sopravvivenza, non soltanto psichica. Alcune donne possono diventare minacciose o pericolose per i loro figli, e mettere in atto anche comportamenti al limite della legalità.

Può avvenire che il figlio venga identificato, inconsapevolmente, come il responsabile di qualcosa di negativo per la coppia o per la madre stessa. Poniamo la fine di un periodo di stabilità, o la perdita dell’indipendenza. L’ambivalenza vissuta dalla donna è altamente distruttiva: ama il figlio, ma allo stesso tempo lo vive come un peso, sente che egli le ha tolto qualcosa. Il figlio di conseguenza soffre, e cerca disperatamente il modo per accontentare la madre, per renderla soddisfatta. Per esempio si adegua alle sue richieste, o si dedica alle cose che lei ama. Oppure, al contrario, entra nella dinamica aggressiva di rigetto reciproco e scatena contro la donna attacchi sempre più violenti.

Nel caso che vorrei descrivere, il figlio individua anche una terza strada: la tossicodipendenza.

L’uso smodato di droghe ha delle conseguenze molto significative. Da un lato spegne i dolori del giovane: egli ipersocializza con i coetanei, sentendosi (finalmente) amato e rispettato. In questo caso le droghe fungono letteralmente da farmaco auto somministrato, e il soggetto realmente sta meglio quando le assume. Perché al contempo seda le ansie e migliora la performance e la visibilità tra gli amici. Inoltre nel rapporto con il gruppo dei pari può comparire la dipendenza affettiva: le istanze di contenimento, che un individuo dovrebbe trovare nel nucleo famigliare, vengono trovate al suo esterno, creando così un precedente pericoloso: la separazione dai nuovi punti di riferimento potrebbe diventare problematica. 

Dall’altro lato l’uso di droghe ha un significato relazionale: il messaggio alla madre. L’attacco frontale alla madre, (sempre come reazione alla sua ambivalenza) è sia nei termini di una violenza cieca che il soggetto esprime su di sé, (iniettare droghe in vena è gesto furiosamente violento) ma anche nei termini di una (ennesima?) drammatica richiesta di attenzione che il figlio avanza. 

In questi casi l’obiettivo del trattamento è la cura della ferita narcisistica originaria. Ovvero quella sensazione di essere stati espulsi e successivamente aggrediti, mai abbastanza apprezzati, talvolta addirittura detestati.

Dico che questo è l’obiettivo della cura perché, e torno all’inizio di questo articolo, l’ambivalenza materna (il rapporto espulsivo/aggressivo) è originata dal fatto che la madre abbia visto nel figlio (magari molto inconsapevolmente) un ostacolo al proprio percorso di vita. Questa ipotesi, qualora risultasse vera, dovrebbe però passare attraverso un’analisi e una attribuzione di significati da parte del figlio. Perché la madre ha avuto quella sensazione in quel particolare momento della sua vita? È stata aiutata da qualcuno, oppure ha affrontato da sola quella fase critica? Qual è stato il ruolo del padre nella vicenda? 

Rispondere a queste domande, e ad altre di questo tipo, significa uscire da una sensazione vaga e pre consapevole di malessere, quella del bambino male accolto, per entrare in una fase di pensiero critico e adulto, quella della responsabilità: in cui l’individuo è in grado comprendere le ragioni della sofferenza altrui, di uscire dalla relazione di dipendenza e di entrare in una relazione di aiuto reciproco

Amori virtuali (ancora sul narcisismo)

Le relazioni virtuali ci parlano di una tendenza al narcisismo. L’epoca individualista ci ha spinti sempre più, per tornaconto personale, a isolare le nostre necessità rispetto a quelle altrui.

La narrativa ‘io valgo’, elevata a potenza dalle esigenze dei mercati, contiene in sé un implicito drammatico: ‘io valgo più degli altri’.

L’isolamento autoreferenziale diventa evidente nella mole di relazioni che gli utenti dei social networks allacciano con altri utenti, in maniera totalmente virtuale. Ovvero coppie che nascono a distanza, hanno una certa vita di relazione e alla fine si sciolgono, tutto virtualmente. 

La relazione virtuale ha alcuni vantaggi rispetto a quella in presenza, non c’è dubbio: per esempio non è violenta fisicamente; e poi è meno controllante perché la distanza è pur sempre distanza. 

Ma la relazione virtuale ha una caratteristica peculiare rispetto alle altre: non obbliga ad assecondare le esigenze dell’altro. Del resto l’altro non c’è. Potremmo dire che nelle relazioni virtuali l’altro non è che il simulacro di se stessi. 

Insomma, vedo un legame profondo tra il narcisismo e la tendenza a sviluppare relazioni virtuali che si sciolgono prima ancora di diventare relazioni ‘in presenza’. 

Il narcisista cerca l’altro solo quando ha bisogno di qualcosa, non culla l’altro nella propria mente quando non è presente. Per il narcisista la relazione è sempre solo una relazione con se stessi, con l’idea di sé, potrei dire con l’immagine di sé che egli ha idealizzato.  

La relazione virtuale è una falsa relazione, ovvero è fare dell’altro uno strumento, un prolungamento del proprio narcisismo. E’ come se uno dicesse all’altro: durante la giornata non ti cerco, non ho nessun bisogno di te. Ti sto contattando in questo momento perché ho bisogno di questo e di quest’altro. Il contratto non esplicitato potrebbe essere il seguente: se accetti di soddisfare le mie richieste ti contatterò ancora. 

La relazione virtuale richiede poco impegno. Ma attenti a non restarne bruciati.   

Infedeltà sul posto di lavoro. Quando troppe fantasie denotano un problema di coppia.

Tutti hanno fantasie. Fantasie di aggressività, come per esempio quella di insultare chi ti taglia la strada, fantasie alimentari, come il desiderio improvviso di mangiare un cibo particolare o bere alcolici, fantasie erotiche

Una fantasia non è un comportamento: nei casi summenzionati è una fortuna limitarsi alle fantasie. Immaginiamo cosa accadrebbe se tutte le volte che sentiamo l’impulso di colpire una persona scortese, poniamo, in posta o in panetteria, non sapessimo trattenerci. 

A ben guardare una fantasia non è neppure un pensiero vero e proprio, intendo un pensiero strutturato. ‘Pensare’ qualcosa è darle corpo, almeno nella nostra mente. Facciamo un esempio. Un individuo ha la fantasia di assistere al concerto del cantante tal dei tali. Immagina se stesso in compagnia della persona x o y in prima fila, di cantare con lei le canzoni di quel cantante, di passare una bella serata.

Il pensiero che potrebbe dare corpo a questa fantasia è: reperire i biglietti, invitare la persona, trovare parcheggio vicino al teatro. Ovvero la struttura minima, magari già in sequenza, delle immagini che possono concretizzare la fantasia. 

Per trasformare il pensiero in realtà, poi, servirà un piano d’azione. Sarebbe a dire le sequenza dei comportamenti, delle azioni concrete, che porteranno alla meta. 

In questo modo si vede che avere fantasie di infedeltà non è infedeltà, o per lo meno non ancora. Proprio perché per concretizzare una fantasia c’è bisogno anzitutto del pensiero, e poi di un piano di azione. 

Avere molte fantasie ricorrenti dello stesso genere, tuttavia, denota senza dubbio un qualche nervo scoperto. Fantasie ricorrenti legate al cibo o al consumo di alcolici possono fare pensare ad un problema irrisolto in quel campo, o fantasie relative ad aggredire una persona che ci sta antipatica a qualche problema con la gestione della rabbia e dell’aggressività. 

Così avere ricorrenti fantasie di infedeltà, soprattutto sul luogo di lavoro, può denotare qualche problema di coppia. Sottolineo l’elemento ‘sul luogo di lavoro’ perché è un contesto non del tutto appropriato.  

Mi spiego meglio. Entrare in pasticceria ed essere assaliti dalla fantasia alimentare non è patologico. Ben diverso è sentire lo stesso impulso in metropolitana o sull’aereo. Sul luogo di lavoro (in genere) le persone ci si recano per fare un’attività lavorativa, non per praticare infedeltà: la fantasia di infedeltà al lavoro è, sostanzialmente, fuori contesto. 

Riassumendo: la fantasia non è un pensiero né un piano d’azione, ma avere frequenti fantasie di infedeltà può indicare un problema di coppia, specie se riguardano il contesto lavorativo. 

Come riconoscere la dipendenza sessuale? Tre aspetti caratteristici.

La sexual addiction è un comportamento di dipendenza che può creare diversi problemi relazionali e nella vita quotidiana.

Per distinguerla dalla normale pratica non patologica sottolineo alcuni aspetti che la caratterizzano, mettendo in evidenza come questi siano negativi e spiacevoli per l’individuo.

1. Come per tutte le forme di dipendenza prevede una ricerca compulsiva. C’è una bella differenza tra fumare un sigaro in compagnia dopo cena e non poter iniziare la giornata senza una boccata di fumo. Vale lo stesso per la dipendenza sessuale. Se in sua assenza non si riesce a rimandare, se la sua ricerca diventa predominante sulle altre attività della giornata, siamo in presenza di una dipendenza. La capacità di rimandare la soddisfazione di un bisogno è fortemente connessa con il saperlo desiderare: vale a dire inserirlo in qualche angolo della mente dove possa venire cullato e, entro certi limiti, idealizzato. E’ quello che succede quando compriamo il biglietto per un concerto che avverrà fra alcuni mesi, o quando fissiamo un appuntamento che però avrà luogo solo fra alcuni giorni: sapere aspettare la soddisfazione di un bisogno è l’opposto della dipendenza.

2. All’attività vengono associati stati d’animo negativi. Alcuni comportamenti di dipendenza inizialmente hanno origine con lo scopo di ridurre l’ansia e l’angoscia, di fungere da valvola di sfogo. Vale lo stesso per lo shopping compulsivo, il gioco d’azzardo o il gaming patologico, e per la dissociazione ad essi legata. Queste attività vengono scoperte dagli individui e praticate inizialmente perché ne ottengono benefici, li fanno rilassare. Ad un certo punto invece alcuni si accorgono che gli aspetti positivi diventano sempre più marginali, in confronto a quelli negativi, e infine non saprebbero più dire se le si ricercano per ridurre lo stress della giornata, oppure per interrompere il craving crescente.

3. L’individuo sente che c’è qualcosa di dissonante nel suo comportamento. Quando la colpa e/o la vergogna fanno parte di un comportamento, o in maniera diretta o per assenza, ovvero perché fortemente negate, è perché qualche cosa dentro non quadra. Molti italiani hanno una passione sfrenata per il calcio. Tuttavia nessuno si sognerebbe di provare colpa o vergogna alla domenica sera per essere stato allo stadio. Né nessuno ha mai provato a smettere, sentendo che questo comportamento ha in sé qualcosa che non va. Quando siamo agiti dall’interno, non riusciamo a smettere, pur avendoci provato, siamo in presenza di una forma di dipendenza.

Ho evidenziato aspetti spiacevoli, dissonanti, tipici della sexual addicition.

In questo modo ho sottolineato come la sessualità possa diventare un comportamento più dannoso che piacevole. Soprattutto se la sua pratica assume sempre più le caratteristiche di una dipendenza, e sempre meno quella di tutti gli altri significati che gli esseri umani le possono attribuire.

Adozione e psichiatria. Come aiutare bambini adottati che presentano problemi ‘psi’.

L’adozione è un trapianto. Se un bambino viene spostato da una famiglia ad un’altra avrà sempre la nostalgia, o il ricordo, della sua famiglia d’origine, anche se l’ha maltrattato. Se da neonato cambia continente e cresce in tutt’altre condizioni, anche in questo caso avrà fantasie, desideri, diciamo pure rimpianti, riguardanti il suo Paese natale, la città o la famiglia naturale.

L’adozione, lo sappiamo, può non funzionare per diversi motivi: riferibili al retroterra dell’adottato, oppure, come avviene in medicina con il fenomeno del rigetto, ascrivibili alla famiglia adottante.

Faccio un breve cenno al caso dei pazienti psichiatrici. Estremizzando un po’ essi hanno un funzionamento rigido, con delle difese rigide e sono molto frammentati o scissi al loro interno. Per questo a volte è complicato per le famiglie adottanti avere a che fare con pazienti di questo tipo: la naturale flessibilità che costituisce i ritmi e le attività della vita in famiglia poco si adatta alla loro forma mentis.

Questi pazienti hanno la tendenza a mettere ‘fuori da sé’ le cose che non funzionano: aspetti relazionali, difficoltà nel mondo del lavoro, adattamento al contesto, ecc… risultando talvolta ossessionati da allucinazioni (che non a caso i loro canali sensoriali indicano provenienti da fuori) o convinzioni di complotti o persecuzioni (‘loro’, ‘gli altri’, ecc…).

In questo clima di diffidenza i pazienti psichiatrici adottati tendono a scaricare accuse molto forti, magari in maniera inconsapevole, sulle famiglie adottive. Questa è una delle ragioni per cui il clima famigliare potrebbe deteriorarsi.

Questi ragazzi da una parte sono molto affettuosi e grati, ma dall’altra, proprio a causa del loro funzionamento ‘a compartimenti stagni’ continuano a coltivare fantasie che riguardano le famiglie originarie, a discapito delle nuove. Può darsi che nella loro costruzione di senso del mondo, giungano a fare entrare nei complotti e nelle persecuzioni anche queste nuove famiglie, con le conseguenze disastrose che si possono immaginare.

La famiglia adottante, pertanto, si trova davanti a diversi tipi di difficoltà, che da sola potrebbe non superare. Anche l’adozione di un paziente psichiatrico è un trapianto, ma un trapianto che necessita di cure specifiche.

Quali sono gli stili materni? La Mother Queen, un tipo di madre assente.

Ci sono diversi modi per suddividere e definire gli stili di attaccamento del bambino, ma quali sono i principali stili materni? Ovvero, quanti ‘tipi’ di madre esistono?

Semplificando molto, e riferendomi al tipo di influenza diretta che una madre ha sul presente del bambino, credo si possano indicare una serie (composita) di madri ‘presenti’, una serie (composita) di madri ‘assenti’, e una serie di madri per così dire ‘intermedie’ o ‘moderate’, in grado di modulare prossimità/distanza in base alle situazioni.

Nell’ambito delle madri che (non necessariamente per colpa o dolo) possono essere definite ‘assenti’, quali sono gli stili materni predominanti? Ho accennato alla Mother Superior , vorrei qui fermarmi su quella che amo definire ‘Mother Queen’, la madre ‘regina’.

Una regina ha nei confronti dei suoi sudditi un atteggiamento di benevolo distacco. Ella certamente ama rappresentarli nelle occasioni mondane. Una regina ama rivolgersi ai sudditi facendo leva su gli alti valori della responsabilità e dell’appartenenza alla casa comune. Una regina difende il suo popolo nelle occasioni più importanti. Ma altrettanto certamente possiamo dire che una regina si mescola con le dinamiche dei suoi sudditi solo parzialmente; Si fa ritrarre con alcuni di essi, i più vicini a lei per rango e censo, dicendo che lo fa a nome di tutti gli altri; in quanto regina il patrimonio di cui dispone la differenzia notevolmente dagli altri, talvolta anche da quelli che fanno parte della sua stessa casa reale. Insomma una regina è seducentemente, ma inesorabilmente, irraggiungibile.

La prima caratteristica fondamentale del tipo di madre assente che definisco stile Mother Queen è proprio questa: irraggiungibile. La madre irraggiungibile si pone al di sopra e di lato rispetto ai figli, ne è costantemente cercata dallo sguardo, ma non si sofferma mai su di loro, perché per l’appunto, la sua attenzione è rivolta altrove, verso un orizzonte diverso.

La Mother Queen non è necessariamente una madre assente dal punto di vista fisico. Proprio come una regina non è assente dalla vita dei suoi sudditi: anzi, la sua è una presenza fortemente ingombrante. Ecco, ingombrante è l’altra caratteristica fondamentale della Mother Queen. La combinazione di questi due elementi caratteristici, essere allo stesso tempo irraggiungibile e ingombrante, fa sì che la Mother Queen venga vissuta con deferenza e rispetto, ma anche con frustrazione. Il bambino sente di non poter mai raggiungere questo tipo di madre, sente che qualunque cosa faccia non è mai abbastanza. Una bambina che tutti definiscono brava, per esempio, che tutti ammirano per la sua bravura a scuola, può sentirsi ferita da una madre che non la riconosce come tale, perché abituata, poniamo, ad essere ella stessa al centro delle attenzioni.

Oppure un bambino che tutti definiscono bello, ammirato per la sua bellezza, può nutrire in sé delle insicurezze se la madre non si mostra mai abbastanza appagata da lui.

Ci sono senza dubbio diversi modi in cui una madre possa risultare ‘assente’ dalla vita dei suoi figli, e non necessariamente sono tutti per sua colpa o responsabilità diretta. La Mother Queen è una di queste. Questa donna attraversa un periodo particolare della sua storia: in conseguenza di ciò non riesce a sintonizzarsi sulle frequenze dei figli, ma allo stesso tempo ne ingombra (involontariamente) la strada, e ne frustra, suo malgrado, il cammino.