Nuovi problemi sessuali: paura del corpo, della competizione e del politicamente scorretto.

Nella mia pratica quotidiana incontro sempre più frequentemente problemi sessuali, anche di forme diverse rispetto a quelle, per così dire, tradizionali. Disfunzioni erettili occasionali o episodi di eiaculazione precoce per gli uomini, difficoltà legate all’orgasmo o perdita dell’interesse sessuale per le donne, ecc… . 

La paura del corpo e il politicamente corretto

Una delle ragioni di quella che possiamo definire un’involuzione delle dinamiche relazionali, è certamente l’ondata di terrore per il corpo che si è propagata nel post pandemia da Covid-19. Le tecnologie oggi consentono relazioni asettiche, con scambio istantaneo di immagini e video privati, che alla lunga creano una bolla di comfort informatico. Da un lato, questi scambi mettono al riparo da rischi di contagio che inevitabilmente la prossimità umana comporta. Dall’altro, vediamo che il contatto in presenza non è più necessariamente l’inizio di una relazione, ma talvolta il passo successivo a scambi di messaggi, foto o video andati a buon fine. Così avviene che per alcuni il passaggio al corpo, e al corporeo, è una prova dei fatti (declamati,  millantati?) non facile da sostenere.  

E poi c’è la concomitante esplosione (sacrosanta) del politicamente corretto. Se da un lato, finalmente, tutti si sentono meno autorizzati a fare quelle odiose battute a doppio senso, quelle allusioni viscide, che da sempre mettono in imbarazzo non solo chi ne è il bersaglio, il rovescio della medaglia è un raffreddamento generale della self confidence. I più timidi (di ogni genere) possono sentirsi sotto esame ogni volta che fanno qualche approccio, e più in generale possono percepire su di sé giudizi o aspettative che un tempo non si pensava di avere. 

Fuga dalla competizione

Ad un livello più profondo, i nuovi problemi legati alla relazione, e che si manifestano soprattutto nell’attività sessuale, sono associati ad una sempre maggiore difficoltà di entrare in competizione. Vediamo comunemente, ormai, condotte di evitamento attivo della competizione, in ogni ambito della vita del nostro Paese. I politici in crisi di consensi cambiano partito, anziché impegnarsi a recuperare voti con quello a cui sono iscritti. Sportivi professionisti chiedono ai procuratori di cambiare società o campionato, quando sentono di non avere fiducia da parte dell’ambiente, anziché mettersi di impegno per mostrare il loro valore. E via di questo passo. 

La tendenza a pretendere a priori un certo tipo di riconoscimento, prima ancora di aver dimostrato di meritarlo, è parte di molti atteggiamenti che a vario titolo abbiamo definito egocentrici, egoistici, individualistici, narcisistici ecc… . Ossia atteggiamenti di chi non è disposto a conquistare qualcosa, perché ritiene gli sia dovuta. 

Se nella coppia in una crisi questo può portare, nei casi più gravi, a scontri violenti, nella coppia in divenire può definire difficoltà sul piano sessuale. Perché devo impegnarmi a fare qualcosa che mi è dovuta? Perché devo raggiungere, conquistare, sedurre? L’intimità necessita di un certo impegno, ma probabilmente non tutti lo sanno. Anche di questo si parla sempre troppo poco, e, malauguratamente, anche sempre troppo a vanvera. 

Tiki-Taka e autolesionismo

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, e guru mondiale del Tiki-Taka, vittima di piccoli gesti autolesivi

I benpensanti hanno subito accusato il famoso personaggio di non essere pago della sua fortuna, ma si sa, e proprio qui vediamo che non è una frase fatta, i soldi, di per sé, non danno la felicità. Nell’impossibilità di commentare i comportamenti e la psiche di Guardiola, perché non è mio paziente, e anche nel caso non avrei certo potuto farlo, vorrei però fare alcune riflessioni sulla rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo

Aggressività passiva

Il famoso allenatore ci racconta una cosa molto chiaramente. A tutti i livelli è bene sviluppare una buona consapevolezza della nostra parte oscura, e trovare vie adeguate di espressione e manifestazione di rabbia e aggressività. Perché l’autolesionismo è una modalità estrema di espressione di queste emozioni, e soprattuto individua in noi stessi il colpevole di qualcosa di terribile. Qualcosa per cui meritiamo una punizione. 

Ognuno di noi ha una certa quota di arrabbiature quotidiane, e il modo in cui le superiamo fa la differenza sull’andamento della nostra giornata. 

Una modalità poco conosciuta di espressione della rabbia è l’aggressività passiva. Ci sono situazioni in cui siamo contenuti, bloccati, ma gettiamo saette con gli occhi, o con battute al veleno. Oppure ancora con sarcasmo pungente, colpendo persone che non hanno nessuna colpa. L’aggressività passiva è un modo molto disadattativo di superare la tensione. 

Autolesionismo

Un modo ancora peggiore, è l’autolesionismo. Colpire noi stessi significa anzitutto riconoscere di non essere adeguati alla sfida che stiamo affrontando, perché una sfida non ci può destabilizzare così profondamente. Ma soprattutto significa ammettere di essere stati talmente cattivi da meritare una punizione. 

Pep Guardiola ha confessato un piccolo gesto autolesivo, quello di ferirsi lievemente la fronte con le unghie, per sua fortuna è al riparo da gesti più eclatanti. Ma alcuni individui arrivano a graffiarsi violentemente il viso, a procurarsi tagli sulle braccia, a sfidare la morte in gare pericolose, o anche di peggio. Ciascuno di noi deve avere un buon rapporto con la sua rabbia, viverla ed esprimerla in termini adeguati e non distruttivi. In fin dei conti la rabbia ci racconta qualcosa di noi stessi, ci dice che siamo insoddisfatti, e capire dove e come lo siamo, non è cosa da poco. 

Sadismo e Tiki-Taka

Resta un altro step, quello sportivo. Qualcuno mi ha persino chiesto se il Tiki-Taka non sia, in fondo, una modalità di gioco passivo aggressiva, in cui l’avversario viene sfinito, quasi deriso, senza una vera logica razionale, una sorta di perversione sadica? È una domanda a cui non so rispondere, perché esula dall’ambito della psicologia sportiva. 

Posso dire, invece, che ogni forma di arte, ogni filosofia, ogni concezione estetica assomigliano intimamente a chi le ha ideate. E sono amate anche da chi, in qualche modo ci si rivede. Ma di questo parleremo in un’altra sede. 

Come riconoscere la depressione “sotto soglia”?

Depressione” è uno di quei termini entrati nel linguaggio comune che a volte vengono utilizzati in maniera impropria: ad esempio per spiegare situazioni, condizioni, o stati d’animo, che non necessariamente identificano la patologia psichiatrica cui si riferiscono. 

Depressione sotto soglia

Avviene così che uno studente possa dire di essere un po’ depresso dopo la bocciatura ad un esame, che un economista possa definire depresse alcune aree del mondo, o che uno storico possa riconoscere come depressi gli inglesi dopo il referendum per la Brexit. Espressioni, queste, che potrebbero essere enunciate anche in altri modi, senza scomodare le categorie della salute mentale. 

Di conseguenza a quest’uso talvolta non appropriato della terminologia “psy”, può avvenire anche la situazione inversa, ossia che un individuo viva uno stato che nella sostanza è depressivo, ma che non viene riconosciuto come tale. Una condizione che ricalchi gli aspetti psichici, ma non i sintomi clinici della depressione, invece, può comunque essere considerata una depressione sotto soglia

Può avvenire, ad esempio, che un individuo attivo, impegnato, e con tanti amici, viva una lunga fase di involuzione. Oppure che uno sportivo entri in un tunnel di tedio, che pur senza inchiodarlo al letto, lo rallenti facendogli sentire tutto estremamente pesante. Oppure ancora, che un individuo per il resto sano, diventi improvvisamente inappetente, malinconico, non interessato alla vita sessuale. 

Sogni, film, romanzi, ci parlano del nostro vuoto

La depressione sotto soglia è una condizione in cui i sintomi clinici più importanti sono tutto sommato compensati, mentre il soggetto vive comunque un senso di vuoto, di inutilità o di tristezza. Questi possono emergere, per esempio, nei sogni, o nei film che sceglie di guardare, o nei romanzi che decide di leggere. 

L’insonnia è un indicatore molto importante, lo sappiamo, perché quando dormiamo le difese razionali si abbassano. Ma anche gli interessi artistici lo sono, perché nell’arte sentiamo riverberare cose che a livello razionale fatichiamo a dire. 

Essere attratti esclusivamente da un certo genere di film, di romanzi, o di musica, (l’horror, per esempio, o il death metal), è certamente un indicatore di disposizioni individuali molto marcate, che sarebbe utile non derubricare a priori a meri gusti artistici.  

Il calo del desiderio nelle coppie stabili: leggerlo, gestirlo, comunicarlo.

Non sempre il calo del desiderio è sinonimo di crisi di coppia. Questa dinamica nelle relazioni affettive è molto diffusa, più di quanto si potrebbe pensare: in genere viene vissuta con paura e vergogna, ma soltanto raramente è il preludio di una separazione, per le ragioni che fra poco vedremo. E proprio per queste ragioni, è bene che venga affrontata individualmente, da caso a caso, senza generalizzare, perché le motivazioni che la inducono possono essere molto diverse. 

Calo “orizzontale” e “verticale”

Anzitutto è bene dividere il problema del calo del desiderio in almeno due grandi capitoli. Da un lato metterei il calo del desiderio in generale, che potremmo qui definire “orizzontale”, ossia la perdita di interesse per la vita sessuale in sé. In questo caso un individuo non sente attrazione verso il partner, ma neppure verso altre persone. Dall’altro lato, invece, metterei la perdita dell’interesse per la persona amata, e potremmo definire questo calo come “verticale”. In quest’altro caso l’individuo sente attrazione per altre persone, oppure anche per altre persone, e questa cosa lo inquieta, al punto da renderlo confuso sul da farsi, cioè non è sicuro di voler interrompere la relazione. 

Il calo orizzontale potrebbe essere dovuto ad una serie di cause non necessariamente legate all’altra persona, intendo se non marginalmente. Ossia, un individuo può vivere una fase di forte stress lavorativo, o un lutto familiare, oppure ancora l’effetto ritardato di uno di questi eventi. Altrimenti può attraversare una fase depressiva, o essere colpito da ansia e avere attacchi di panico, ecc… In tutti questi casi l’attività sessuale, in quanto attività di relazione con gli altri, potrebbe subire una diminuzione, così come la vita sociale nel suo insieme. Vale a dire le cene con gli amici, le serate in discoteca, e così via. A tutti è capitato di essere meno socievoli in determinati frangenti della vita, e sappiamo che non avere voglia di vedere quel determinato amico per un certo periodo, non corrisponde automaticamente a voler rompere l’amicizia con lui. 

Il calo verticale, invece, merita un discorso diverso. Scoprire che il partner non è più oggetto di fantasie, mentre lo diventa, invece, un altro individuo, potrebbe essere una cosa molto difficile da gestire. Ma anche in questi casi non è necessariamente l’inizio della fine. In genere siamo attratti da qualcuno anche per ragioni “mentali”, ossia perché ci affascina al di là dell’aspetto fisico. Per esempio si muove in un certo modo, è molto acuto nel parlare, cose di questo tipo. Avere un’infatuazione “mentale” per una persona può determinare il calo dell’interesse per il partner. 

Altri agenti perturbanti potrebbero essere l’orientamento religioso, o politico, oppure la scoperta di essere attratti da persone con orientamenti sessuali diversi. Anche in questi esempi non è possibile generalizzare, e proprio per questo ho sottolineato come ogni caso vada valutato e affrontato separatamente. 

Comunicazione social

Qualche parola a parte va spesa riguardo alla comunicazione in coppia. Sembrerebbe scontato ritenere che se abbiamo un calo di desiderio, il partner dovrebbe automaticamente accorgersene. Le cose, purtroppo, non stanno in questi termini. Gli amanti vivono sovente nell’illusione di saper capire l’altro da uno sguardo, a volte da un gesto. Ma sovente quello che crediamo di cogliere, non è che la nostra stessa volontà, proiettata nell’altro. Così è molto importante, ancorché difficile, trovare canali di comunicazione adeguati, o, per meglio dire, efficaci. Ma per fare questo, se mi passate la polemica, i consigli standardizzati dei social network non sono sempre sufficienti. 

Il collega è un narcisista? Ecco cosa fare, e non fare, per difendersi al meglio.

Il narcisismo è una delle reazioni più diffuse alle turbolenze che stiamo attraversando in questi anni. Come diciamo sempre, esistono vari tipi di narcisisti, non tutti ugualmente pericolosi o dannosi per gli altri, ma va da sé che doverci convivere, come in una relazione affettiva, amicale, o tra colleghi in ufficio è talvolta altamente frustrante.

Origini del narcisismo

La frantumazione degli equilibri politici, economici, sociali a cui eravamo abituati in passato, sta determinando una progressiva frammentazione del sé e dell’identità individuale. Questo è molto chiaro dagli orientamenti di voto che vengono espressi alle elezioni (meno polarizzati di un tempo), dalla partecipazione alle manifestazioni religiose (meno assidua), dalla fiducia nel futuro (in caduta libera), e da tutta una serie di altri fenomeni popolari che certamente il lettore può facilmente individuare intorno a sé. 

Per adattarsi a ciò, sono ovviamente possibili diverse reazioni, ma in questo nostro tempo dell’individualismo una delle più comuni è la formazione di tratti di personalità narcisistici. Ossia, un po’ estremizzando, “Le cose vanno male perché nessuno capisce il mio valore.”

Vivere a contatto di un narcisista è cosa estremamente difficile, perché se da un lato questi crede di necessitare ammirazione incondizionata, dall’altro mostra scarsa empatia verso chiunque. Così avere in ufficio un/una collega narcisista può essere un elemento di disgregazione degli equilibri d’équipe, ammesso, ovviamente, che ne esistano. 

Come difendersi?

La reazione più immediata che questi colleghi possono scatenare, infatti, è la creazione (involontaria?, inconscia?) di coalizioni esclusive, che coinvolgano da una parte loro i fans (ovviamente ne avranno) e dall’altra i loro detrattori. Questo tipo di reazione è altamente esaltante per il narcisista, che si sente al centro di contese collettive, ma è anche estremamente pericolosa, in ottica di funzionamento di squadra, perché fa perdere di vista la mission organizzativa.

Una reazione individuale, invece, che qualcuno potrebbe essere portato a ricercare, è quella della rivalsa: sbugiardare le posizioni del narcisista nel momento in cui mostrano la loro fallacia. Ora, siamo tutti d’accordo che questo sarebbe un piatto al sapore di vendetta, per alcuni certamente gustosissimo, ma anche in questo caso farebbe deragliare il gruppo di lavoro rispetto agli obiettivi per cui è sorto. 

Inoltre, mai umiliare un narcisista. Le sue reazioni potrebbero essere sconsiderate, proprio in virtù della rigidità con cui si pone verso gli altri, e dell’ammirazione che pretende di avere come il migliore tra i presenti.

Psicosomatica: come gestire i sintomi fisici di natura psichica?

Un disturbo psicosomatico è una riposta fisica ad un disagio psicologico inespresso. 

Entità indivisibili  

Tutti abbiamo reazioni intense in certi momenti della giornata: alcune sono positive, altre negative, e in genere avvengono in concomitanza di eventi significativi. Se durante una discussione accesa sentiamo aumentare la sudorazione, o in presenza della persona amata sentiamo aumentare la frequenza cardiaca, sapremo facilmente rintracciare nel contesto ambientale l’origine di questi messaggi corporei. 

La psicosomatica funziona diversamente: ci presenta il conto di un acquisto sconosciuto. Ci troviamo, così, a dover gestire un determinato sintomo, senza sapere in maniera esplicita a cosa sia dovuto. 

La cultura scientifica dualista di cui facciamo parte, ci ha insegnato a suddividere fenomeni o grandezze indivisibili per poterli studiare. Questo avviene ad esempio nella medicina, in cui i sistemi del corpo umano vengono distinti in muscolo scheletrico, circolatorio, digerente, ecc… per esigenze medico-chirurgiche, ma fanno ovviamente tutti parte di un individuo unico, e sono pertanto legati fra loro. Lo stesso vale per la psiche: essa è indissolubilmente legata al nostro corpo, e pertanto potrebbe imparare, con il tempo, e a certe condizioni, a scaricare il malessere proprio in uno di quei sistemi. 

Esprimere il disagio

In questi anni convulsi, successivi alla pandemia da Covid-19, abbiamo imparato l’importanza di dare un nome ed esprimere il disagio, nonché l’importanza di circondarci di persone, in coppia, o nel gruppo di amici, che sappiano ascoltare, dare un peso, a quello che succede dentro di noi. Lo stesso dobbiamo dire parlando di psicosomatica, dove anzitutto noi stessi dobbiamo saper ascoltare il nostro corpo

Ad alcune forme di turbamento o sofferenza psichica cominciamo, con il tempo a non dare troppa importanza, a nasconderle, se non addirittura ad insabbiarle: da un lato per non perderci tempo, ma dall’altro anche perché, probabilmente, il nostro ambiente affettivo non le prenderebbe troppo sul serio. Nel caso della psicosomatica può avvenire che condizioni stressanti si incastrino in profondità dentro di noi, e non trovino il modo di venire espresse, neppure a noi stessi. In questi casi, però, non scompaiono del tutto, semplicemente vengono relegate ad un livello più profondo, andando ad appesantire alcuni organi al di là della nostra volontà.   

E cosi avviene che molti pazienti, quando chiedo se saprebbero dire in quale punto del corpo localizzerebbero il loro malessere, facciano segno indicando la testa, o le spalle, o il ventre, e così via. Per ogni sintomatologia si può individuare una parte del corpo nella quale la sentiamo nascondersi meglio, più comodamente. 

Affrontare un sintomo psicosomatico significa anzitutto mettersi in comunicazione con il corpo, ascoltare che cosa voglia dirci attraverso quella manifestazione, e perché non ne abbia, invece, espressa un’altra. Il nostro corpo ci parla, se agli altri non interessa, dovrebbe per prima cosa interessare noi stessi.   

Napuli sul tetto del mondo.

Quando i meridionali arrivarono a Torino negli anni Sessanta, per riempire di braccia quelle stesse fabbriche che oggi emigrano a loro volta, erano chiamati Napuli. Il termine, canzonatorio e genericamente riassuntivo, definisce in realtà il disprezzo che i torinesi di allora avevano per tutta quella massa di italiani, così lontani ed estranei, da poterli racchiudere in un unico sottoinsieme: napoletani.

Napuli

I Napuli a Torino hanno lavorato e pagato le tasse, hanno comprato case, automobili, quotidiani, hanno cresciuto figli, e poi hanno fatto proverbiali rimpatriate al sud, ai loro paesi d’origine, per le vacanze estive. Ma quel termine “napoletani” (che a Milano era “terroni”), li ha feriti e vilipesi, ben più di quanto abbiano mai potuto mostrare. Così, quando alla fine degli anni Ottanta, Totò Schillaci venne ingaggiato dalla Juventus, i meridionali di Torino videro in quel ragazzo il figlio che ce l’aveva fatta, il riscatto della nuova generazione su un passato di stenti e discriminazioni. 

I napoletani avevano già in Maradona il loro eroe, va detto, ma i meridionali tutti arsero immediatamente di orgoglio, quando il ragazzo siciliano (cit. Bruno Pizzul) indossò quella casacca, croce e delizia di ogni italiano. Nella sua prima stagione alla Juventus, Schillaci vinse la coppa Uefa, e quando allo stadio Meazza, contro il Milan, alzò anche la coppa Italia, Azeglio Vicini non poté esimersi dal convocarlo in Nazionale. 

Totò, figlio d’Italia

Fu lì che Schillaci scrisse la Storia. Entrando dalla panchina, e per questo senza pestare i piedi a nessuno, Totò, ex Napuli, ora beniamino di tutti gli italiani, salì letteralmente sul tetto del mondo. 

Della parabola discendente non vorrei dire, perché per tutti noi non ci fu mai nessuna parabola. Totò Schillaci resterà sempre l’emblema di quell’estate magica, con quel suo sguardo rapace di chi ha deciso di farcela. Sguardo che è senza dubbio la prima cosa che ci sale alla memoria, quando udiamo quello che fu davvero la colonna sonora di una grande estate italiana.  

E negli occhi tuoi, voglia di vincere, un’estate, un’avventura in più.”  

L’eiaculazione precoce è un problema? Ecco cosa puoi fare.

Circa un uomo su tre è incorso, almeno una volta nella vita, in questo spiacevole inconveniente. L’eiaculazione precoce è qualcosa di più di un semplice disturbo, perché tocca nell’intimo chi ne soffre, avvilisce la coppia, e soprattutto ferisce il/la partner, che poi è la vera vittima di questa problematica di cui non ha colpa.  

Sei troppo bella 

La prima cosa che si fa, quando si presenta un episodio di eiaculazione precoce, è cercare delle scuse. Credo sia certamente comprensibile dal punto di vista umano, e direi anche una inevitabile e genuina difesa della propria virilità. Sarebbe penoso, infatti, dover ammettere delle responsabilità, in una situazione già di per sé così fortemente imbarazzante. 

Ma a volte, come dice il detto, la toppa è peggio del buco. Questo perché cercare delle scuse blinda la posizione di chi invece dovrebbe fare autocritica, e trovare il modo per superare questo impasse. Lo mette al sicuro, gli consente di cadere in piedi dicendo “non è colpa mia”. Inoltre, e questa è davvero la peggiore delle conseguenze, la classica accusa, travestita da complimento, “sei troppo bella”, scarica le colpa sul/la partner, che si vede beffata due volte. 

Alcune/i di questi partner, infatti, reagiscono con ironia, altri scrivendo subito alle amiche, o peggio a potenziali amanti, ma altri ancora iniziano a covare un senso di inadeguatezza, di sfiducia, di bassa autostima.  

Cosa fare?

L’eiaculazione precoce, quando non è occasionale, è sovente un fatto di significati. Tutti attribuiamo un significato a quello che facciamo, intendo anche significati impliciti, non del tutto chiari neppure a noi stessi, se non nel loro aspetto più generale, per non dire superficiale. 

Così frequentiamo un ristorante dimenticando (apparentemente) che in quella via si sono incontrati i nostri genitori, oppure amiamo un profumo che ci lega a qualche ricordo d’infanzia, che però non sappiamo definire con precisione, e così via. 

Quando l’apparato genitale è privo di disturbi organici, la disfunzione è molto probabilmente legata a qualche significato profondo che a tutta prima ignoriamo. 

Al di là dei consigli pratici che si trovano su ogni sito, quindi, diventa importante indagare proprio quel significato: non solo è il vero responsabile del nostro comportamento, ma è la garanzia certificata che si ripeterà nuovamente, anche con un’altra persona. E non importa quale scusa riusciremo a inventare, o quale lusinga a immaginare. 

I grandi della nazionale di calcio: Rino Gattuso.

I campioni dello sport non sono tutti uguali. Alcuni sono amati per le loro gesta, altri per quello che lasciano nel pubblico. Gennaro Gattuso, detto Rino, entrambe le cose, per questo è certamente uno dei più grandi campioni del nostro sport, una vera icona della nazionale italiana di calcio.

Uomo del Sud

Atleta eccezionale, e uomo straordinario, Rino Gattuso incarna almeno due grandi archetipi della cultura popolare italiana. Anzitutto è l’uomo del sud che ha fatto fortuna al nord. Benché l’Italia sia un Paese unito da anni, in cui gli squilibri geografici vanno diminuendo, questa continua ad essere una grande allegoria del successo e della scalata sociale.

Rino è un uomo che, nonostante la lunga carriera a Milano, non ha mai perso l’accento calabrese, e porta sempre la sua Calabria con sé. Nei modi di fare, negli sguardi ai giornalisti, nelle risposte a certi dirigenti, Rino continua ad essere il ragazzo di un tempo, anche se mai fuori alle righe. Per lui vale certamente la classica espressione del cinema: “Il successo, non lo ha cambiato”. La pancia del tifoso lo sente, il pubblico vede in Gattuso i valori dello sport come passione genuina, come sfida sfrontata alle difficoltà quotidiane, come impegno a migliorarsi ogni giorno, non importa quale successo hai conseguito ieri.

Ringhio

Il secondo archetipo sta in quel soprannome: “Ringhio”. Non tutti gli campioni della nazionale di calcio hanno avuto la fortuna di essere identificati con la grinta e la combattività, come Rino Gattuso. Alcuni, anzi, sono stati percepiti come presuntuosi, altri come poco attaccati alla maglia, e così via. “Ringhio” definisce una caratteristica temperamentale del calciatore, che è anche dell’uomo: è la garanzia che “da qui non si passa, se non sul mio cadavere”. E cosa sogna di più il tifoso, se non vedere nel suo idolo le proprie stesse fatiche quotidiane, le proprie difficoltà di sopravvivere in un mondo feroce, la propria condanna a spendere tutto se stesso ad ogni nuova sfida?

E poi aggiungiamo un altro elemento, Rino Gattuso per primo ha alimentato questo mito, con la sua modestia (anche questa da fuoriclasse). Egli ha sempre detto di come, essendo inferiore agli altri tecnicamente, ha dovuto allenarsi più di loro, per poter competere alla pari. Ma davvero pensiamo che Rino Gattuso fosse inferiore ad altri? Un campione che ha vinto, tra l’altro, due Champions League e una Coppa del Mondo, era davvero inferiore a qualcun altro? O forse in questa modestia, in questa perseveranza, per l’appunto in questo soprannome, non sta racchiusa tutta la sua grandezza?

Questi sono alcuni aspetti del Gattuso “pubblico” che lo hanno reso grande agli occhi del pubblico. Certamente ce ne saranno altri che definiscono il Rino “privato”, ai quali noi non abbiamo accesso. Possiamo però dire, senza ombra di dubbio, che è stato fortunato chi ha potuto incontralo e conoscerlo. Probabilmente Ringhio avrà dispensato sorprese anche alle persone che hanno condiviso con lui i momenti più difficile della sua vita.

Come piacere agli altri e avere successo (in due mosse).

Nel tentativo di piacere agli altri, in genere, tendiamo a compiere un errore: nascondiamo i nostri limiti, fino al punto di dimenticare di averne. 

È umano, ma certamente anche strategico, fare leva sui nostri punti di forza quando vogliamo fare breccia nel cuore, o nella mente, di qualcuno. Tuttavia il processo è pieno i ostacoli, molti dei quali piazzati sulla strada proprio da noi stessi. Il primo, e più infingardo, riguarda la consapevolezza dei nostri limiti, o, se vogliamo, dei nostri punti di debolezza.

Avere fiducia in noi stessi…

Ciascuno di noi ha, (o dovrebbe avere) una buona considerazione di sé. Per alcune cose crediamo di essere i migliori, riteniamo di meritare ammirazione infinita, di essere speciali, e così via. Questo è parte di una soggettualità sana e completa, anche perché ritenere di valere poco, di meritare meno di quello che si ha, o credere di restituire agli altri meno, rispetto a quello che ci danno, è atteggiamento malsano, che può creare malessere esistenziale profondo. 

Ma anche avere troppa fiducia in noi stessi, può essere pericoloso. In particolare, nascondere i nostri limiti, negarne l’esistenza, ci espone agli attacchi altrui. Prendiamo il mondo del lavoro, e pensiamo, ad esempio, ad una persona non troppo esperta con l’Inglese. Se nasconde questo suo limite, e anzi si comporta come se non lo avesse, si espone al rischio che qualcuno possa assegnarle mansioni che ne prevedano l’uso disinvolto. O, peggio ancora, che qualcuno possa utilizzare questa lacuna per metterla in difficoltà. Al contrario, questa persona potrebbe invece riferire il suo limite con disinvoltura, magari ridendoci sù, e chiedere ai colleghi di essere aiutata quando c’è da usare l’Inglese. In questo modo difficilmente le sue difficoltà le si ritorceranno contro. 

Lo stesso discorso si può fare quando intendiamo piacere a qualcuno, nel lavoro o nella vita privata. È molto pericoloso fare approcci senza avere presente su quali punti possiamo fare leva, e su quali invece occorre fare attenzione.

…ma riconoscere i nostri limiti 

Per fare questo piccolo, ma importante, passaggio, occorre sapere riconoscere i nostri limiti, e non viverli con vergogna. In altre parole, dobbiamo lavorare sul narcisismo, ossia sull’idea che abbiamo di noi stessi come di persone amabili e desiderabili, da cui gli altri avrebbero solo da imparare. 

Riconoscere di avere delle mancanze o delle lacune, e individuare chi tra gli altri è più bravo di noi, garantisce due ordini di risultati. Anzitutto, tenere la partita su un piano a noi congeniale, evitando che finisca su dimensioni in cui siamo impreparati. E poi, cosa tutt’altro che secondaria, ci apre alla possibilità di migliorare, di apprendere, in una parola, di crescere. E nel lavoro, come nella vita privata, non è caratteristica da sottovalutare.