Lo smartphone in classe

Ricordo quando nelle scuole si diffusero i video game portatili, quando arrivarono le calcolatrici professionali e più tardi le agendine elettroniche. Ogni volta grandi levate di scudi da parte degli insegnanti: dove andremo a finire, la didattica non sarà più la stessa, i ragazzi non seguiranno con attenzione. Le innovazioni tecnologiche spaventano, non si conoscono bene, non si sa quali contromisure adottare, così è più facile demonizzare, che provare ad armonizzare. 

Internet: quale verità?

Come ho già riportato altre volte, la specificità di Internet (e del suo tempo) rispetto al tempo dei media tradizionali è la frammentazione della verità. Prima di Internet la verità era ‘franosa’, ‘debole’, ‘inafferrabile’, ma non frammentata. Su un giornale di sinistra, o una tv di sinistra, avevi una certa lettura dei fatti, su testate capitaliste o cattoliche un’altra: l’ordine era debole, ma comunque garantito. 

Su Internet invece ognuno è opinionista: giornalisti, studenti di filosofia, storici ecc… . Ne discende che l’interpretazione di un fatto non sia legata alla linea editoriale che la contiene, ma all’individuo che la esprime, che tra l’altro la può variare da un giorno all’altro, in base alle sue convenienze personali. 

Di conseguenza quella che era una verità ‘debole’ è diventata una verità frammentata, atomizzata, polverizzata. Sotto un post social ha pari dignità e visibilità ogni tipo di commento: favorevole, contrario, neutro. 

Frammentazione psichica

Ogni buon filosofo sa che la verità è multiforme, per questo Internet non può essere criticato se ospita punti di vista diversi. Il problema arriva quando la frammentazione non riguarda la verità, ma il sé che la interpreta. La frammentazione della vita psichica, specie quando è inconsapevole, è dannosa e crea sofferenze. 

Lo smartphone in classe, o comunque in mano ai ragazzi, può creare questo effetto paradosso, ed è questo che va arginato. Il preadolescente e l’adolescente sono ancora poco esperti di pensiero ipotetico, ossia di quel pensiero astratto che arriva con la maturazione.

L’esposizione incontrollata a informazioni che frammentano l’opinione sulla verità, può aggredire un sé in costruzione, se non ben supervisionato da parte degli adulti. 

Gli aggeggi informatici (pensiamo anche ad orologi smart o occhiali) entrano ed entreranno sempre più nelle scuole, quindi più che ostacolarli converrà capire da subito come gestirne le controindicazioni. Se non è possibile fermare l’esposizione incontrollata, bisognerà quantomeno tenerne conto nelle diverse fasi scolastiche, e apportare all’azione formativa specifici strumenti pensati ad hoc

Riforma scolastica: la complessità

Ecco che tornano vecchi fantasmi. Sostenere che servano nuovi strumenti potrebbe significare che gli insegnanti non siano abbastanza adeguati, ma è una semplificazione della realtà. Fornire ai ragazzi una formazione adeguata ai tempi non può coincidere con lo scaricare il peso di questa formazione su famiglie o corpo docente. 

Per entrare in classe con uno smartphone, e non uscirne fagocitati, è necessario che la scuola tenga conto della nuova complessità delle cose, e soprattutto della complessità della vita psichica di uno studente. Complessità che è ben superiore a quella di alcuni anni fa, in cui i ragazzi erano inquietati ‘soltanto’ dall’adolescenza. 

Aggressività sul lavoro: insoddisfazione e burnout.

In ambito lavorativo un livello minimo di conflittualità tra colleghi è utile, se non per certi versi persino auspicabile. 

Anzitutto perché, come insegna la filosofia, il confronto, la discussione, il ‘conflitto’ sono aspetti vitali del cooperare, rendono feconda e viva l’azione organizzativa che altrimenti potrebbe appiattirsi, e poi perché è meglio avere discussioni a cielo aperto piuttosto che mugugni e incomprensioni sotto traccia. 

Il conflitto e l’aggressività però devono restare entro una soglia di normale tollerabilità, perché una cosa è la dialettica appassionata tra professionisti, altra cosa è la difesa spartana di posizioni (e privilegi) attuata con arroganza e villania, cosa che accresce e non diminuisce la conflittualità e deteriora il clima. 

Insoddisfazione 

Posto che  l’arroganza può essere imputabile a perfidia o maleducazione, e per questo la psicologia del lavoro non può fare nulla, altre volte alla base di atteggiamenti poco collaborativi può esserci l’insoddisfazione o il burnout

Nel corso degli studi ci imbattiamo in argomenti che ci intrigano più di altri, e comprensibilmente culliamo il sogno di occuparcene durante la carriera lavorativa. Questo tuttavia è un sogno che solamente in pochi riescono a realizzare, e per lo più in maniera parziale. Ossia in tutti i lavori ci si trova a dover incanalare le competenze e gli interessi professionali nella direzione di quanto previsto dalla mansione che si ricopre. 

Così il preparatore dei portieri della nazionale di calcio, poniamo, sognava di allenare le skills dei suoi atleti, cosa che avrebbe fatto se fosse stato in una squadra di club, e invece deve occuparsi di altri aspetti più pragmatici. Allo stesso modo l’ingegnere al touch screen della Nasa ha fatto la tesi su un certo argomento e invece gli viene chiesto di occuparsi di altro. 

La distanza tra il lavoro che abbiamo sognato da studenti, o della modalità con cui vorremmo effettuarlo, e quello che ci viene richiesto dai committenti, scava in vari modi l’insoddisfazione lavorativa. Questa insoddisfazione può emergere sotto forma di alta conflittualità o peggio aggressività, ed è evidente che se in un team di lavoro qualcuno è arrogante o svalutante perché fortemente insoddisfatto le prospettive del team di lavoro non sono rosee.

Burnout

La conflittualità nelle organizzazioni può essere scatenata anche dal burnout. Se l’insoddisfazione riguarda la mansione, un certo tipo di burnout può riguardare il ‘ritorno’ che sentiamo di avere relativamente alle energie investite. Quando l’investimento non viene ripagato da un adeguato riscontro di risultati, può portare ad una forma di alienazione. In questo senso il burnout non riguarda soltanto le professioni di aiuto, in cui tipicamente si può avere l’impressione che gli sforzi non siano ripagati adeguatamente, ma per estensione tutti i casi di adattamento dell’uomo al suo contesto lavorativo.

L’aumento dell’irritabilità del soggetto in burnout può sfociare in rapporti lavorativi stereotipati e freddi, e in alcuni casi in atteggiamenti particolarmente arroganti o aggressivi. Se l’aggressività dovuta all’insoddisfazione riguarda la mansione, pertanto, l’aggressività dovuta al burnout riguarda il soggetto, il suo rapporto con il lavoro. La prima può essere superata soltanto dall’individuo, la seconda, se vogliamo, dal team nel suo insieme. 

8 marzo e femminismo. Il discorso mai concluso sulla violenza di genere.

Una donna su tre

Una donna su tre afferma di essere stata vittima di violenza nel corso della vita, ossia circa il 33 per cento del totale. Tra queste una su sette afferma che la violenza sia stata di matrice sessuale

Se a questo dato aggiungiamo che gli uomini in questione non sono gli stessi due o tre che vanno in giro ad aggredire e violentare, appare chiaro che il tema ‘violenza nella coppia’, o se preferite ‘violenza di genere’, coinvolge un numero spaventosamente alto di individui. 

Parlare di violenza di genere in ambito femminismo e parità di diritti, pertanto, è difficile e pericoloso. Da un lato si rischia di mettere fuorilegge milioni di uomini, accusandoli di avere fatto violenze che forse neppure hanno compreso. Dall’altro significa mettere e al bando milioni di donne, accusandole di avere caratteri deboli e di ripetere gli stessi vecchi errori nelle relazioni affettive. 

Le cose tuttavia sono più complesse di così, e infatti nel femminismo contemporaneo il discorso sulla violenza di genere, per quanto affrontato migliaia di volte, non è mai stato portato ad una conclusione.

Femminicidio e diritto di proprietà

Lo snodo cruciale che dovrebbe fare convergere gli sforzi del neo femminismo contemporaneo (ma vi prego troviamogli un altro nome) è quello del femminicidio

In genere si guarda al femminicidio (circa 300 casi all’anno in Italia) come a un evento raro e lontano, che riguarda persone strane, violente, distanti dal nostro modo di vivere. Qui sta il punto fondamentale del femminismo odierno, nel sottovalutare la portata culturale del femminicidio. 

Il femminicida e la sua vittima non sono necessariamente persone strane e avulse dal contesto sociale, anzi, tutt’altro. Il presupposto culturale di base, non ideologico si badi bene, ma socio culturale, del femminicidio è il diritto di proprietà. 

Il mio smartphone è un oggetto soltanto mio, come la mia automobile, la mia chitarra, o la custodia dei miei occhiali. Se questi oggetti sono miei ne posso disporre in maniera totale, e posso stabilire se tenerli, regalarli ad altri o gettarli nel cestino. Il femminicidio è l’estensione del diritto di proprietà ad una persona. 

Il femminicidio è il banco di prova del femminismo contemporaneo: si deve comprendere che si tratta della punta di un iceberg, un iceberg che rappresenta il disconoscimento dell’altro come individuo autonomo e indipendente. 

Il punto non è la violenza: tanta o poca che sia non fa molta differenza. Il punto vero è il diritto di proprietà. Se credo che una persona mi appartenga, che non sia degna di fare un passo senza la mia approvazione, sto già facendo una violenza di proporzioni inaudite. 

Il discorso sulla ‘violenza nella coppia’, o ‘violenza di genere’ se preferite, non è mai stato portato a conclusione perché non si è mai concentrato sul concetto di proprietà. Ecco su cosa devono insistere le azioni educative, i convegni, le tavole rotonde, del femminismo contemporaneo. Ammesso che se ne facciano ancora. 

Adolescenza, web e alimentazione: i ragazzi sono ben informati?

Una delle modifiche irreversibili che il web ha portato alla nostra vita riguarda il rapporto con il cibo. L’aumento dei contenuti social a sfondo alimentare non può non avere un impatto sulla percezione che abbiamo della nutrizione e di tutto quello che le ruota intorno. In adolescenza, inoltre, ogni micro evento va considerato sempre come elevato a potenza. Questo a causa della difficoltà degli adolescenti di adeguarsi al corpo che cambia, ma anche alla competizione tra pari, che a seconda dei casi può essere altamente distruttiva. 

Ho già detto altrove del food porn, ossia della moda esibizionista di postare i piatti che abbiamo cucinato o che stiamo per mangiare, vorrei ora soffermarmi sull’informazione e sulla disinformazione. 

Fake news

La capacità di leggere i contenuti impliciti di un testo, di un video o di un evento storico è centrale nella scuola come nella vita di tutti i giorni. La libertà di pensiero di cui godiamo si basa sulla possibilità di dare interpretazioni diverse, anche contrastanti, di uno stesso fenomeno. Tuttavia fare errori di valutazione molto grandi può essere controproducente, anche nel lungo periodo, e decifrare correttamente i dati che abbiamo davanti può discriminare tra conseguire un successo o un fallimento. 

Sui social network è facile incappare in sedicenti sessuologi, medici, esperti di storia, di lingue straniere ecc… e naturalmente anche di nutrizionisti. Dico di sedicenti non per sfiducia, ma perché dietro ai nomi ‘Emily 99 studentessa di medicina’, ‘Peppe Trapp ginecologo’, ‘Maneskina osteopata e erborista’ è difficile scorgere professionisti in grado di aiutare chi ha problemi di salute. 

Così il problema si sposta sull’utente della rete, sulla sua capacità di distinguere e scegliere tra un buon consiglio e un parere scientifico. 

Disturbi e disturbatori alimentari  

Il discorso alimentare in adolescenza può aprire faglie di vulnerabilità. La competizione nel gruppo classe, ma peggio ancora nello spogliatoio della palestra, può scatenare ossessioni profonde legate alla qualità o alla quantità del cibo assunto. Se aggiungiamo che i canali informativi privilegiati dagli adolescenti sono giocoforza quelli collegati al web, capiamo quali difficoltà abbiano educatori e famiglie nel modulare il flusso e la qualità delle informazioni. 

Le dinamiche di gruppo possono indurre i ragazzi a estrapolare frasi o frammenti di video dai social network e farne regole di vita. Il rinforzo ad un messaggio non è dato da chi lo emette, ma dal valore che viene assegnato dai membri del gruppo di riferimento. 

Se la ragazza più in vista della palestra riposta un video in cui, poniamo, si afferma che lo zucchero fa male, e infatti lei non lo assume, l’effetto di emulazione può essere dirompente. Il disturbatore alimentare, che emette sentenze legate alla sua esperienza, e che lui sente (legittimamente) efficaci, stimola, così, l’esordio di un vero e proprio disturbo alimentare. Non sarà però lui a pagarne il prezzo, ma i ragazzi e le loro famiglie. 

Cosa non ha funzionato del femminismo? La risposta sbagliata ad una giusta domanda.

Oggi nel mondo la politica è un fatto sostanzialmente maschile, la religione è un fatto sostanzialmente maschile, i grandi gruppi economici sono gestiti sostanzialmente al maschile. Dovremmo concludere, senza troppa retorica, che il femminismo ha fallito? 

Da Simone de Beauvoir alle Pussy Riot

Il punto di partenza di ogni filosofia femminista è dimostrare che i generi non hanno un ordine di importanza, e non è dal genere che discende il peso che uno acquisisce nella società. 

Tuttavia i femminismi si declinano solitamente in azioni che paradossalmente negano la parità e sostengono la superiorità femminile. La conseguenza è un irrigidimento delle posizioni, ossia un aumento della conflittualità anziché una sua diminuzione. 

Il muro contro muro conduce la parte forte ad arroccarsi sui privilegi consolidati per spostare il focus dello scontro su altri livelli, diversi da quelli in questione. Trovo eccezionali a tale proposito le parole di Lorenza Foschini, grande giornalista Rai.  Dopo essere giunte, insieme ad altre grandi firme femminili, a condurre i TG della sera, alla metà degli anni Novanta si accorsero che i direttori di testata, di rete e i direttori generali erano tutti uomini. ‘A quel punto’ disse la Foschini ‘abbiamo capito di essere state giocate: il potere non stava nel leggere il Tg, come per anni ci avevano fatto capire.’

Così ai tempi di Chiara Ferragni, come a quelli di Simone de Beauvoir, ai grandi propositi, ai grandi discorsi, fanno seguito proposte spartane, urlate, non ragionate. Valga per tutte quella delle famose incursioni delle ‘Pussy Riot’, le ragazze che nude aggrediscono personaggi famosi. Le reazioni che scatenano queste proteste sono più estreme e rigide delle intenzioni che le hanno originate.

Femminismo da piazza e da salotto.

La contrapposizione muro contro muro cementa l’identità, ma è una forzatura nazional populista dei presupposti del femminismo. Non c’è una sola rima in Christine de Pizan, una sola pagina di Simone de Beauvoir, un solo accenno nell’intera opera di Julia Kristeva che ammicchi allo scontro, alla contrapposizione, all’invettiva di piazza. 

Dividere i femminismi in quelli da piazza e quelli da salotto è un modo per fare del male al femminismo, e per rafforzare, in sostanza, le posizioni dello status quo.

L’errore strategico del femminismo, perciò, è stato quello di volgarizzare lo scontro, di esacerbare le distanze, di chiedere riconoscimento di diritti sotto minaccia (sovente di stampo sessuale) dimenticando che nel rapporto tra generi uno sa ancora fare molto male, come  mostrano i dati sul femminicidio.  

E’ ancora tempo di femminismo?

Oggi nel mondo, come dicevo, la politica, le religioni, il potere economico sono gestiti sostanzialmente al maschile. La nostra cultura, se vuole davvero essere la più liberale, deve trovare il modo di garantire la pari dignità a tutti i cittadini, come peraltro va affermando nei suoi principi generali. 

Ritengo che il movimento femminista debba anzitutto liberarsi dai connotati ‘sessisti’, perché la libertà della donna non può essere un obiettivo delle donne, ma di tutta la società. Ripulire dal dibattito gli elementi di scontro significa eliminare per esempio termini come ‘maschilismo’, ‘patriarcato’, o lo stesso termine ‘femminismo’. Favorire l’incontro significa sfavorire lo scontro. 

Ancora una volta il ragionamento converge su Julia Kristeva, la sua opera, il suo sforzo di unire il buono che c’è nelle religioni, nelle filosofie, nella psicoanalisi: il ritorno all’umano. Nello scontro di società che sotto traccia serpeggia nel nostro tempo potrebbe essere proprio la questione del femminile a spostare l’ago della bilancia della storia. Qualcuno si sente pronto?

Beatles e Rolling Stones finalmente insieme: John Lennon, Peter Pan e la fine dell’adolescenza.

Ci siamo, la notizia è arrivata: i Beatles e i Rolling Stones suoneranno insieme. 

Al di là dell’aspetto simbolico, che certamente dividerà ancora una volta gli appassionati, e delle sue inevitabili ricadute economiche, però, questa indiscrezione cela una verità molto inquietante, che vorrei mettere in evidenza. Non tanto per parlare di loro, ma per dire, come sempre, di cose che riguardano ciascuno di noi

I saw her standing there

Gli anni Sessanta sono stati l’adolescenza della nostra epoca. Nel 1961 è stato alzato il muro di Berlino, nel 1969 è arrivato l’allunaggio. In mezzo: J. F. Kennedy e Marilyn Monroe, il Concilio Vaticano II, la diga del Vajont, il sogno di Martin Luther King, i trapianti di cuore, il Concorde. E, ovviamente, la musica dei Beatles

Se gli anni Cinquanta, ci sembrano lontanissimi, i Sessanta appaiono vicini, perché comprendono cose che fanno ancora parte della nostra quotidianità. Fatichiamo a lasciarceli alle spalle, perché sono simili alla nostra di adolescenza. Anche l’adolescenza, per quanto duri un battito di ciglia, è difficile da superare. Ci ritorniamo sovente con la memoria, e rianalizziamo cose successe e cose che potevano succedere, in un eterno ritorno a luoghi e situazioni che a volte è solo inconcludente fonte di malessere. 

La trovata di Beatles e Rolling Stones di suonare insieme è un eterno ritorno di questo tipo. Mick Jagger e Paul McCartney sembrano dirci: l’adolescenza non è finita, anzi, mai finirà. Noi siamo ancora i ragazzi di allora, e proprio come allora siamo qui, in mezzo a voi. Soltanto che (fatta salva l’operazione commerciale, sia chiaro) le atmosfere del Cavern Club non sono più le stesse, perché gli anni Sessanta non ci sono più, e neppure quella ragazza di sedici anni non ha più lo stesso look. 

John Lennon newyorkese 

Diversa fu, in tempi non sospetti, la posizione di John Lennon. Il Nowhere man stabilì che come uomo e come artista l’adolescenza era finita. Aveva dimostrato di saper fare un album all’anno, di saper vendere milioni di copie, di essere diventato una star internazionale. Ma la vita andava avanti, c’erano altre battaglie da combattere, l’arte non poteva fermarsi al cancello di Strawberry Field. Così John Lennon lasciò tutto e partì per New York, portandosi dietro da Liverpool soltanto la sua fame di arte, di provocazione, di novità. Furono buoni i risultati? Non sta a me dirlo. Fu felice Lennon? Senza dubbio sì. E cosa volete di più? 

Invece voglio chiedermi se sia felice un uomo che pensa ancora a quella ragazza di sedici anni, a quando la vide per la prima volta, a quando ci ballò insieme.

E (fatta salva l’operazione commerciale, sia chiaro) si ostini a ribadire che è tutto come allora, perché i vent’anni non sono mai arrivati. 

Così, non l’avrei mai detto, mi trovo a difendere John Lennon, il suo lucido cinismo, il suo sguardo rivolto unicamente al futuro. Non credo che approverebbe l’operazione nostalgia BeatlesRolling Stones, che sa di un passato lontano, oggi troppo lontano. 

E non l’approverebbe anche perché in fin dei conti riterrebbe entrambi Beatles e Rolling Stones sue creature.  

Ma questa è un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta. 

Padri assenti: ‘presenti nell’ombra’, ‘non pervenuti’, ‘evasi’.

Un padre può risultare assente per ragioni indipendenti dalla sua volontà. La mia intenzione qui non è quella di accusare, ma di analizzare serenamente, nel tentativo di comprendere; Aiutare i figli a capire come e perché hanno sentito un vuoto da quella parte, e aiutare i padri a prendere coscienza di come alcuni loro atteggiamenti potrebbero essere letti, contro la loro stessa intenzione, come disinteresse.

Fasi diverse, percezioni diverse 

Il peso del padre nella vita di un ragazzo o di una ragazza oscilla in maniera diversa a seconda della fase di crescita. Durante l’infanzia i bambini hanno bisogno di una presenza fisica, concreta, intendo anche a livello di affettuosità. Andare a scuola, agli allenamenti, o in vacanza non è la stessa cosa senza un padre, o senza la presenza tangibile di un padre. Durante l’adolescenza invece la presenza deve essere meno fisica e un po’ più psichica. I ragazzi vogliono sentirsi meno pressati, meno controllati, ma non per questo meno considerati, spronati, o anche ostacolati, nel caso facessero cose al limite del lecito. 

Metto in evidenza almeno tre casi in cui un padre possa essere percepito come assente. 

Padri ‘nell’ombra’

Il primo è quello degli uomini presenti, ma nell’ombra. In questi casi il padre c’è ma soltanto sullo sfondo: è una sagoma seduta sul divano, senza voce, e il cui sguardo non si posa mai sul figlio. La madre bada a tutte le esigenze del bambino, lo aiuta nei compiti, incontra gli insegnanti, ecc…, ma ogni tanto agita lo spettro paterno: ‘guarda che lo diciamo a tuo padre’, oppure ‘se lo scopre papà sono dolori’.

Questi padri non si vedono, sono muti, ma esistono, si percepisce che ci sono. A loro è sempre garantito un posto a tavola, per esempio, o un posto alla recita di fine anno; I figli faranno sempre loro una telefonata dall’aeroporto, poche parole formali, per dovere di cronaca. E’ poca roba, d’accordo, ma è pur sempre qualcosa. Il figlio ha verso il padre una specie di timore reverenziale, non di più; Del resto il padre non ha neppure mai niente da dirgli, nel bene come nel male. Così il figlio sente questo padre come assente, lo ricorderà a posteriori come assente, pur se di fatto era in casa, vivevano sotto lo stesso tetto. 

Padri ‘non pervenuti’

Ben diversa la situazione dei padri che potremmo definire ‘non pervenuti’. Il padre non pervenuto è un uomo che viaggia molto, o passa il suo tempo fuori casa: in cantina a fare le sue cose, come si usava un tempo, oppure al bar con gli amici, oppure in qualunque altro luogo o situazione che non sia a casa con il resto della famiglia. Il padre ‘non pervenuto’ manca tutti gli appuntamenti importanti della vita dei figli. Il saggio di danza, il primo concerto, l’esame per la patente. Questi padri hanno impegni inderogabili, e i figli passano la vita ad allungare il collo nella speranza di vederseli arrivare, di vederli presenti, ma invano. I figli di questi uomini non di rado covano dei risentimenti, perché hanno l’impressione di essere messi sempre al secondo posto.

Padri ‘evasi’

Infine c’è il padre ‘evaso’. E’ quello che ha vissuto una vita di coppia travagliata, conclusa con una separazione conflittuale. Secondo le sue intenzioni ha abbandonato i figli nelle grinfie della madre ed è scappato a rifarsi un’altra vita. Nella percezione del figlio, invece, il padre evaso è una specie di traditore, un codardo, che ha lasciato la nave in balia della tempesta anziché dare il suo contributo per aiutare i passeggeri. 

Il figlio del padre evaso non nutre disillusione o risentimento: può arrivare a sviluppare un rancore molto profondo per il genitore, anzi a generare man mano un astio verso tutto ciò che assume caratteristiche ‘paterne’, come per esempio gli insegnanti o le autorità. Se un figlio (o una figlia) percepisce il padre come un vile che lo ha abbandonato, può arrivare a detestare gli uomini, e in certi casi persino a rinunciare ad avere una famiglia propria, per non avere mai più a che fare con un ruolo come il suo.    

Perché gli italiani non votano? Non chiamatela depressione

Un autorevole editorialista ha sentenziato che la causa del recente astensionismo alle regionali di Lazio e Lombardia sarebbe la depressione. E ha pure insistito: i partiti politici non si chiedano se è meglio candidare questo o quel personaggio, ma si dedichino allo studio dei depressi e della depressione. 

Ora, è evidente che se questo editorialista ha dei dati epidemiologici che definiscono il 60 per cento degli abitanti di Lazio e Lombardia come depressi debba comunicarli al ministero competente. Sarà certamente lesto ad analizzarli e trarne le debite considerazioni. In caso contrario, però, credo sia bene puntualizzare almeno due aspetti. 

La depressione è una malattia che può essere molto grave

Il primo è che la depressione – nelle sue varie forme – è una malattia altamente invalidante: trasforma la vita delle persone che ne soffrono, nonché quella delle persone che esse hanno intorno. 

Se non curata la depressione incide fortemente sulla vita di un individuo, distorce le traiettorie della sua esistenza. Non soltanto quell’individuo potrebbe essere felice mentre non lo è, potrebbe anche fare e dire molte cose che invece non riuscirà mai a fare o dire: esprimere i suoi sentimenti, aiutare gli altri, avere degli hobby ecc… . 

La fatica, il travaglio, la disperazione con cui molti depressi guardano alla vita possono contagiare figli, fratelli, famigliari, nelle modalità più diverse. Per non dire che molti sviluppano rapporti morbosi con psicofarmaci o con droghe, nel tentativo di autoregolare il loro umore, ma incappando in un fai da te farmacofilico e inefficace. 

Per questo chiedo agli analisti politici di avere più rispetto della depressione: un cliente davvero molto brutto, che fa ironizzare soltanto chi ha avuto la fortuna di non vederlo mai da vicino.

L’errore non è mio, siete voi…

Il secondo aspetto è che, come ho già detto altre volte, è fuorviante porre fuori da noi la causa di un problema che ci riguarda. Dire che gli astensionisti siano depressi è riduttivo e semplicistico. Da psicoterapeuta non posso che fare notare il pericolo dietro al dire: la tale cosa non va perché tizio caio sempronio non vuole capire sentire ammettere adeguarsi interessarsi informarsi (in ultima analisi adattarsi.) 

Porre fuori da noi la spiegazione di qualcosa che ci riguarda e non funziona è una forma di difesa comprensibile, ma che non migliora le cose. Se quello che faccio non va anzitutto devo fare autocritica. 

La costruzione di un senso del mondo che separa nettamente me uguale buono da altro da me uguale cattivo è una costruzione che consente l’adattamento, non c’è dubbio. Ma un adattamento che si basa sull’incomunicabilità. E’ come tornare mentalmente ai tempi del muro di Berlino. Chi è di qua, con me, ha ragione. Chi è di là, con te, ha torto. Se la storia insegna qualcosa, dovemmo provare a superarlo.   

Generazione influencer: da anticonformisti a moltiplicatori di conformismo

Come detto in un precedente articolo siamo una generazione di (aspiranti) influencer

Non c’è niente di male sia chiaro, anzi è buon segno volersi rapportare agli altri in termini di guida, leader, following: significa che crediamo in noi stessi e pensiamo di poter aiutare il prossimo, consigliarlo, illuminarlo.   

Tuttavia c’è qualcosa che non mi torna nella dinamica ‘sé – altri’, specie se rapportata a quella in voga prima dei social networks

Anticonformismo

Prima del web distinguevi le persone eccentriche perché erano stravaganti. In tv si aggiravano personaggi che parlavano e vestivano in maniera stana, persino buffa, e coniavano termini che la gente ripeteva per darsi un tono o per ridere tra amici. E’ il caso del giornalista Giampiero Mughini, e del suo famoso ‘aborro’, o prima di lui del professor Gianluigi Marianini, reso noto dal programma ‘Lascia o raddoppia’ di Mike Bongiorno. O di altri che hanno avuto minor successo, come il cantante Adriano Celentano, meteora come presentatore del varietà televisivo. 

L’eccentrico era anzitutto anticonformista. C’era un conformismo di facciata, democristiano, potremmo dire: istituzionale, rassicurante, vestito grigio e cravatta. E poi c’era l’anticonformismo: farsi notare, rompere gli schemi.

Alla lunga, poi, questa cosa di rompere gli schemi si è un po’ arenata: bisognava capire anzitutto quali fossero gli schemi da rompere, ed era lì che il discorso si faceva più complicato. Ossia, tutti ammettevano l’esistenza di schemi dettati dalla società, ma era scarso il consenso su quali fossero, perché ciascuno intendeva i propri. 

Così ad un certo punto, (imperava il relativismo e il pensiero debole) ci si è resi conto  che ciascuno poteva essere anticonformista a modo proprio, e quindi, in sostanza, essere anticonformisti era diventata una nuova forma di conformismo. Insomma, non se ne usciva più. 

Molto più che leader: influencer

Oggi il web ha trasformato la voglia di protagonismo da eccentricità a esempio. L’influencer è un moltiplicatore di conformismo, un maître à penser che trasforma un sentire collettivo in espressione verbale: se vogliamo l’influencer è l’omologazione elevata a potenza, anzi a regola di vita. Quanti più followers riesco a convincere che si deve vivere come me, tanto più le regole del web (leggi: regole del mercato) mi sapranno premiare. 

Se l’anticonformista, l’anticonvenzionale, il ribelle protorivoluzionario, erano in fondo una sfida (per quanto conformista) alla società di massa, l’influencer è l’adeguamento all’irreversibile stato di cose. E’ accettare che se non è più possibile emergere come alternativi, tanto vale provare a emergere come super adattati. 

Baby alcol: il falso sé social alla prova del gruppo

Le spaventose rivelazioni di Espad sui baby alcolisti confermano dati già nell’aria da alcuni anni. ‘Un milione di italiani tra i 10 e i 14 anni già si sbronza. E il 66 per cento lo ha fatto tra i 15 e i 17 anni’ (fonte La Stampa-Instagram). 

Generazione Influencer

Il modello base dei rapporti tra adolescenti è giocoforza il social network. Non è un giudizio di valore, sia chiaro, ma una constatazione di fatto. Quasi tutti i ragazzi hanno almeno un account social, che costituisce un’estensione, se non un completamento, della loro personalità. Di conseguenza le relazioni tra coetanei, amicizie, rivalità, amori ecc… se non nascono direttamente in rete, certamente vengono aiutate, puntellate, riempite, dalla componente virtuale della loro personalità. 

Fin qui niente di male. Il social networking, però, porta una conseguenza. L’immagine di me che tenderò a dare sul profilo sarà sempre un po’ più cool, un po’ più trendy, un po’ più performante della realtà. Non significa che il mio profilo sarà un fake, ma che le informazioni (e soprattutto le foto di quello che faccio) baderanno un po’ più all’aspetto piacevolezza, strizzeranno l’occhio al mio follower, per il quale, c’è da scommetterci, vorrei avere il ruolo di ‘influencer’ .

Anche fino a qui, se vogliamo, niente di male. E’ del tutto legittimo voler dare di sé un’immagine di persona piacevole, che fa cose divertenti, che ha una vita piena e felice. Fa parte del gioco, anzi sarebbe strano il contrario. Le relazioni però, ad un certo punto, si devono vivere in presenza, di persona, ed è qui che le cose si complicano.  

Quanti likes hai?

Prima dei social network andavi a scuola e soltanto lì incontravi i compagni di classe. Se nascevano simpatie ci si vedeva fuori dal contesto. Prima solo per un caffè, poi un’altra volta si andava al cinema, così con alcuni si arrivava alla pizza, e a lungo andare con altri alle vacanze estive di gruppo. Era un conoscere sempre meglio persone che già frequentavi, e che a vari livelli sentivi affini. Il gruppo dello stadio, il gruppo dei concerti, quello del calcetto. Una volta raggiunti gli amici in birreria tutti sapevano già chi eri, non dovevi ricoprire un ruolo, se non marginalmente. 

La generazione social ha una difficoltà in più nelle relazioni: si porta dietro i followers e i likes del social network. Quando oggi un adolescente incontra gli amici sente il peso dei suoi followers e dei suoi likes: non può tradire la propria reputazione. Così ad una festa di coetanei ci sono ragazzi che cercano anzitutto di confermare l’immagine che gli altri si sono fatti attraverso il suo profilo social, e come abbiamo detto è cosa ardua, se il profilo strizza l’occhio al follower.

Baby alcol

Il consumo smodato di alcol tra giovani e giovanissimi è certamente correlato anche alla necessità di apparire spigliati, simpatici, sicuri di sé. In altre parole al sostegno di un falso sé, un sé idealizzato, unicamente piacevole e ‘social’. 

La riflessione torna così sulla difficoltà di aprirsi e lasciarsi incontrare in maniera autentica da altre persone, ma che è anche difficoltà di voler incontrare, di voler conoscere. In questo modo la responsabilità non ricade più sulle reti o sull’uso che ne facciamo, ma unicamente sulla reale disposizione, disponibilità, con la quale ci rapportiamo agli altri. 

Come si vede queste riflessioni valgono per tutti non solo per i più giovani. Essi talvolta non hanno alternative: non hanno mai conosciuto o frequentato gli altri in un’epoca senza social networks.

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