Pseudo adattamento: il migrante lacerato tra la cultura madre e la nuova condizione matrigna.

Ogni migrante vive una lacerazione interna: tra l’identità della sua terra di origine, a cui sente profondamente di appartenere, e che non vuole tradire, e l’identità del luogo che lo ha (più o meno calorosamente) accolto. Mi riferisco qui sia ai migranti che lasciano Paesi lontani per raggiungere il ricco (ai loro occhi) Occidente, sia ai migranti domestici, che si spostano all’interno dello stesso Paese, per ricongiungere un amore, o per motivi di studio o lavoro.    

Questa lacerazione interna può trovare diverse forme di integrazione. Può esserci un’adesione totale al nuovo, con rigetto di tutte le componenti della cultura di provenienza. In questo caso l’individuo supera la nostalgia considerando la sua terra come antiquata, sorpassata, incapace di stare al passo con i tempi. Può esserci il rifiuto: il migrante trasferisce al nuovo domicilio soltanto il proprio corpo, ma continua a parlare e pensare nella vecchia lingua (o dialetto) a vivere da lontano le dinamiche della sua città, a relazionarsi con i vecchi amici come se non fosse mai partito. 

Infine c’è lo pseudo adattamento, la condizione più deleteria. 

Pseudo adattamento

Potrei chiamare pseudo adattamento quella situazione in cui il migrante si conforma al nuovo contesto, ma solamente in forma superficiale, esteriore. 

L’individuo sente che partire è stata la scelta giusta, sente che è giusto mostrare rispetto, e in qualche modo gratitudine per il nuovo contesto, ma la nostalgia di casa è troppo forte. Questa nostalgia è penosa, talvolta drammatica, e crea nella mente del migrante una frammentazione a strati. Ad un livello superficiale egli parla come i suoi nuovi concittadini, assimila modi di dire, espressioni gergali, e sente la nuova città come propria. Ad un livello più profondo, però, rimpiange la sua casa, i suoi amici, i bei tempi andati. I suoi sogni sono popolati dagli odori della cucina tradizionale, dai suoni, dai canti della sua terra. L’identità del migrante pseudo adattato è un puzzle di tessere dispari, destabilizzata dall’incapacità di incollare tra loro le diverse anime della sua nuova vita. 

Telaio e uncinetto 

Il migrante pseudo adattato deve fare un lavoro di artigianato. Trovare il giusto compromesso tra le parti dell’identità significa dare a ognuna il suo spazio, riconoscere che nessuna può dominare sull’altra/le altre. 

Lo studente che da Monza si trasferisce a Bari per un corso di aggiornamento, come il migrante che arriva a Cogne dal Benin, devono sapere che non è possibile cancellare con un viaggio una storia, una vita, una rete di legami. Il lavoro che dovrà fare il migrante, o dovrà fare qualcuno per lui, è quello del PR: dovrà organizzare incontri. Perché nella nostra mente non possono esserci parti che si ignorano a vicenda. 

Anoressia e donne in carriera

Alcune donne di potere soffrono di solitudine. Conformemente al ruolo che ricoprono, però, e all’immagine che devono dare all’esterno, questa sofferenza non può e non deve essere espressa: a loro non sono consentite fragilità. 

Disturbi alimentari e solitudine

Il disturbo alimentare è sostanzialmente storia di solitudine. E’ da soli che ci si forza a digiunare, è in solitudine che si fanno abbuffate notturne, è nel silenzio della propria intimità che si espelle il cibo, magari dopo aver mangiato in compagnia. 

Non stupisce quindi che molte donne in carriera, o comunque donne forti, tutte d’un pezzo, abituate a essere seguite piuttosto che a seguire, possano soffrire di disturbi alimentari: perché il potere fa rima con solitudine, e l’angoscia che può derivare dal comando necessita di strategie primordiali per essere affrontata. 

Le modalità legate all’assunzione/rifiuto del cibo sono tra le prime ad essere acquisite, come ben sanno le mamme che allattano: da neonati infatti impariamo a comunicare il bisogno di cibo, o a esprimere il senso di sazietà. E da neonati impariamo che quel ‘buco nello stomaco’ può essere riempito se chi ci sta davanti sa capire le nostre richieste. Ma se da adulti ricopriamo un ruolo in cui non possiamo fare richieste, perché non sono previsti attimi di fragilità, ecco che quel ‘buco nello stomaco’ dobbiamo riempirlo da soli, ossia ognuno come riesce. 

Vuoto e pieno

L’ingestione compulsiva di cibo assomiglia allo riempimento forzato di un contenitore. Spingere qualcosa giù, come i vestiti in una valigia. Riempire forzosamente il vuoto primordiale, negare l’utilità del prossimo, dell’Altro, e bastare a se stessi, o almeno provarci. Immaginate se un neonato stanco di aspettare il biberon che non arriva potesse alzarsi, e con rabbiosa voracità ingoiarne l’intero contenuto, mandando al contempo tutti al diavolo. Negare l’importanza del soccorso, proprio quel soccorso che non è arrivato quando ne avevamo più bisogno: fare da sé, a costo di sbagliare, a costo di farci male. Alla donna in carriera, non possiamo negarlo,  non sono consentite fragilità, e il corto circuito è servito. 

Colpa 

Ogni pranzo che si rispetti prevede un’ultima portata, e per il comportamento alimentare l’ultima portata sono rabbia, colpa, senso di abbandono. La colpa e le altre emozione negative del disturbo alimentare sono i diademi della solitudine,  di chi non ha altro giudice se non la propria coscienza. Ed eccoci, così, tornati alla solitudine, da cui siamo partiti. La donna in carriera, o comunque la donna forte, tutta d’un pezzo, abituata non a seguire, ma ad essere seguita, è donna sostanzialmente sola. E da sola, infatti, deve affrontare, oltre alle sue paure di leader, anche il senso di colpa per non essere riuscita, proprio lei, a riempire quel vuoto primordiale: quel ‘buco allo stomaco’ che con tanta rabbiosa voracità ha provato a riempire, mandando al contempo tutti gli altri al diavolo.    

Turin blues: la fine dell’industria e la paura per l’ignoto (l’adolescenza di Torino e la sua prima età adulta).

Tutti sanno cos’era Torino, molti sostengono di sapere cosa sarà. Ma oggi, in questo inizio di decennio che più indefinibile non si poteva, cos’è Torino? E soprattutto, chi e che cosa sono i torinesi?

Il Novecento: industria e smog

La mia generazione ha detestato il grigiore industriale di questa città, regale per vocazione, e provinciale per tradizione, nel confronto mai totalmente digerito con Milano e mai totalmente superato con Napoli e Palermo

Torino, la terza città meridionale d’Italia, la seconda città del nord, madre del cinema e figlia dell’industria; Torino città dello sport, della magia, della filosofia e, ovviamente, del cioccolato. Quante definizioni l’hanno attraversata, e mai nessuna afferrata del tutto, perché si sa, gli stereotipi, specie da queste parti, lasciano il tempo che trovano. 

La mia generazione, dicevo, ha detestato il grigiore industriale di Torino, e a torto: perché così grigia, in fondo, non lo è mai stata. Un po’ altezzosa, questo sì, distaccata, e di conseguenza poco rumorosa. Forse quella sveglia al mattino è stata scambiata per grigiore: il tram nella nebbia, la bugiarda nel borsello, le paste alla domenica dopo messa. Eppure davvero grigia Torino proprio non direi: avete mai visto Bruges la morta?  

Dopo aver a lungo disprezzato quel tempo, poi, tutto a un tratto è venuto un giorno: il 10 febbraio 2006. Quel mattino i torinesi della mia generazione non hanno più visto grigio fuori dalla finestra: le Olimpiadi invernali, infatti, hanno dissolto l’intero Novecento di Torino in un istante, come fanno i sogni all’alba.  

E’ da quel giorno, però, che molti torinesi rimpiangono la Torino che fu. 

Improvvisamente il vituperato Novecento è diventata una bella storia, da raccontare davanti al modem, il focolare postmoderno. Ah quelle domeniche al Balon! Ah il parco del Valentino! Ah Vincenzo Lancia

Ma anche questo è un errore, anche questo è uno stereotipo da evitare. 

La fine dell’adolescenza 

L’adolescenza è quel periodo in cui tutto ti sembra possibile. Hai vissuto l’infanzia cullato da altri, guidato da altri, instradato, e poi improvvisamente ti senti protagonista di qualcosa che neppure sai bene. Gli amici ti guardano con occhi diversi, raggiungi risultati che non credevi, vivi in una bolla di euforia e incredulità. Ogni cosa è una novità, anche quello che per gli altri è routine. Poi arriva l’età adulta, e solo lì capisci quali siano i problemi veri. Il Novecento è stata l’adolescenza di Torino, che dopo l’infanzia sabauda ha vissuto un’epoca tumultuosa di crescita imprevista e sproporzionata, esposta al confronto impietoso con le altre grandi città, di cui sovente è stata migliore, pur se nessuno glielo ha mai detto. Così questi ultimi anni torinesi, (il post olimpico, le piste ciclabili, la fotografia) sono la storia di un inizio, più che la cronaca di una fine. Torino non è nata con l’Unità d’Italia, non finirà con la Fiat: quando Friedrich Nietzsche abbracciava i cavalli nelle vie del centro, a Torino c’erano già la Sacra Sindone, l’Accademia delle Scienze, e il Museo Egizio. Per questo la fine dell’industria sarà come la fine del primo amore, quello della discoteca: ci eri affezionato, è vero, ma arriva il giorno in cui scopri che in fondo ti stava stretto.  

Avere nostalgia per l’epoca industriale, in altre parole, equivale ad avere nostalgia per l’adolescenza. Quando è passata, è passata: anzi, per alcuni è pure una fortuna. La si può ricordare con piacere o dispiacere, ma non serve cercare di ricrearla, di ripeterla, perché è la storia di una persona che non c’è più tra persone che non sono più le stesse. 

Torino e i torinesi oggi sono davanti alle stesse inquietudini del giovane adulto. Finite le feste adolescenziali, cosa fare? Dove andare? Cosa sarò da grande? 

Questo Turin blues che si sente ogni tanto nel traffico, questa nostalgia per ciò che non è più, nella paura per qualcosa che non c’è ancora, è l’inizio della maturità: quando gli Altri hanno smesso di dirti cosa devi fare, e gli amici non passano più a prenderti per andare a scuola. 

Vero e falso sul web: come orientarsi?

Recentemente è apparsa su un social network la seguente sequenza: un quotidiano economico asseriva in un post una certa notizia riguardante l’azienda di un famoso imprenditore; Nella scansione successiva il suddetto imprenditore rispondeva in prima persona dal suo account personale: ‘E’ tutto falso’. Al quel punto gli utenti si sono domandati: é una fake news? Chi ha ragione? 

La società dell’informazione in cui viviamo si basa sull’impossibilità di verificare pressoché tutto quello che è presente sui social networks. Da ‘Tokyo: terremoto del sesto grado Mercalli’ a ‘Il Real Madrid ha battuto il Siviglia 2-1’ le uniche notizie di cui possiamo incontrovertibilmente essere certi sono quelle che non ci servono, perché già le conosciamo. Ossia se eravamo a Tokyo durante il terremoto o allo stadio del Real Madrid durante la partita, o al limite se ce lo avesse detto un amico fidato.

Un atto di fede?

Quindi credere alle news sul web è un atto di fede? Sinceramente direi di no. Alla base del rapporto che abbiamo con i social networks c’è la nostra personalità di individui, e siamo noi in prima persona che valutiamo di volta in volta quello che leggiamo, come all’epoca della carta stampata. Come esseri umani non captiamo tutte le informazioni che ci circondano, perché moltissime non ci interessano: ma registriamo quelle utili ai nostri scopi. Se ad esempio usciamo per shopping e cerchiamo un paio di sandali, difficilmente la nostra attenzione sarà attratta dalle pubblicità dei box in affitto, dalla traiettoria di un rider o dal tempo di intermittenza dei semafori. Se ci imbattiamo in  un’informazione, pertanto, significa che siamo alla ricerca di quella informazione, che la stiamo selezionando tra le atre, che invece escludiamo dalla nostra attenzione. 

Inoltre se siamo vittime di informazioni palesemente incredibili non possiamo che incolpare noi stessi.

Dire che alla base del nostro rapporto con i social networks e i loro contenuti ci sia la nostra personalità, e la nostra capacità di valutare, significa anche un’altra cosa. Alcune informazioni sono utili alla nostra coesione interna, favoriscono la nostra stabilità. 

Frammentazione e Negative capability 

Un tempo insegnavano a leggere le notizie pensando a cosa potessero nascondere: ‘cosa c’è dietro?’. Oggi vediamo che questo atteggiamento è pericoloso e fuorviante. Il retropensiero ha una funzione più consolatoria che interpretativa, anzi alla lunga è sostanzialmente deleterio. 

La frammentazione della nostra vita mentale, trend ormai inarrestabile dopo la pandemia, conduce a dinamiche di ricompattamento che vanno dalla sottomissione al leader (Jay Frankel) all’interpretazione complottista, passando da una lunga serie di disturbi di personalità. Quando siamo di fronte ad una notizia che non possiamo verificare, pertanto, tendiamo a credere alla versione maggiormente significativa per noi, ossia che più compatta la nostra frammentazione interna. In questi termini tornano utili le riflessioni che partono da John Keats e dal suo concetto di Negative capability, ossia capacità negativa. La capacità di stare in negativo: vale a dire nel dubbio, nell’incertezza, nel mistero, è competenza avanzata dell’io adulto. 

Così una buona, anzi direi buonissima, modalità di reazione di fronte alla scansione dell’imprenditore che nega la notizia del quotidiano economico, sarebbe quella di restare in negativo, fino alla prova evidente che prima o poi arriverà da sé. 

Ma la cosa ancora più importante sarebbe chiedersi: per quale motivo propendo più per una risposta che per l’altra? Che tipo di rassicurazione interna mi forniscono le due posizioni? Il che significherebbe non negare di essere vittime della frammentazione, ma accettare di essere individui alla continua ricerca di una coesione interna: che poi è il nostro comune obiettivo ai tempi in cui tutto sembra franarci intorno.  

Cos’è la psicoanalisi? (E perché non possiamo farne a meno.)

Sigmund Freud definì la psicoanalisi come: una teoria sull’uomo, una tecnica di cura, un metodo di indagine. Al di là di cosa pensasse Freud della sua creatura, però, vorrei dire perché ancora oggi la psicoanalisi è così imprescindibile: nella nostra società, e in qualunque discorso sull’uomo e sulle sue attività.

Guardare l’uomo in profondità: l’inconscio

La psicoanalisi è il punto più alto della cultura occidentale.

Nessun poeta, nessun filosofo, nessun romanziere ha mai fatto un viaggio all’interno dell’animo umano come quello della psicoanalisi: un viaggio che aiuta a capire l’uomo, e non si limita a raccontarlo. Oggi non è possibile indagare l’essere umano o le sue attività senza avere come punto di partenza l’opera di Freud.

Punto di partenza, sia chiaro, non significa punto di arrivo: ognuno arriva alle conclusioni cui i dati lo accompagnano, e non è detto che siano necessariamente gli stessi della psicoanalisi (anche se molto sovente sì); Tuttavia oggi non si possono dare punti di partenza senza tenere conto delle scoperte della psicoanalisi, e questo non è cosa da poco. 

Poniamo, per esempio, che un ricercatore voglia studiare la scuola. Le risorse affettive e cognitive, le dinamiche tra gli studenti, i disturbi dell’apprendimento, ecc… Egli non potrebbe affrontare questo studio senza tenere considerare le grandi scoperte della psicoanalisi, come l’esistenza dell’inconscio, oppure l’importanza che possono avere i traumi nella crescita dei ragazzi, ecc… .  

La stessa cosa se invece che la scuola il ricercatore volesse indagare il clima in una azienda e i rapporti tra colleghi. In quel caso bisognerebbe considerare per quale motivo alcuni lavoratori seguono le regole e i dettami dei superiori mentre altri no. Oppure come si sviluppano le dinamiche della leadership, e perché alcuni leaders sono più amati di altri. Come si vede anche in questo caso gli strumenti della psicoanalisi sono talmente importanti che non tenerli in conto sarebbe un errore gravissimo. 

Sintomi, non disfunzioni

Prendiamo ora la psicoterapia. La psicoanalisi ci ha insegnato che le problematiche psichiche non sono necessariamente delle disfunzioni. Alcuni fenomeni psichici in passato sono stati persino idealizzati come funzioni divine, o demonizzati come indicatori di malvagità. Oggi grazie alla psicoanalisi sappiamo che l’uomo è figlio del bambino: ossia un adulto può sviluppare una certa modalità comportamentale come conseguenza a delle condizioni presenti nella sua infanzia.

Quando diciamo che un disturbo è un ‘sintomo’ intendiamo dire che è una spia, un indicatore. Quando il quadro dell’automobile segnala un problema tramite una spia, il meccanico non spegne la spia, ma va controllare che cosa l’ha fatta accendere. Così grazie alla psicoanalisi è possibile trattare un disturbo come un sintomo, non come una malattia o una disfunzione. Il nostro corpo ci dice che qualcosa non va, e ci manda dei segnali.

Grazie a quest’ottica aumenta la fiducia che il paziente ha nel trattamento, ma anche la fiducia che il paziente ha in se stesso. Egli vede che le sue difficoltà non sono delle follie, ma degli indicatori di malessere: non vanno nascoste, taciute, spente, ma ascoltate, interpretate, risolte.    

Cabina elettorale 

Parliamo un attimo di politica. In questo campo è molto interessate capire per quale motivo alcuni leaders attirino più consensi di altri. Ebbene, anche in questo caso è inevitabile partire dalle conoscenze della psicoanalisi: la neuropsicoanalisi per esempio ci dice come i neuroni specchio e i circuiti sottocorticali attivino i pattern delle relazioni primarie, dell’accudimento, o della seduzione. Oppure di come avvenga l’identificazione con chi ha potere.  

Come si vede potevo spiegare perché Freud parlava di teoria, tecnica e ricerca, invece ho preferito spiegare per quale motivo oggi la psicoanalisi sia imprescindibile. Ma devo essermi fatto prendere la mano, perché ho parlato di teoria, tecnica di cura e metodi di ricerca.

‘Non ti amo più’. E poi? La morte dell’Io dopo il Noi.

Rabbia, odio, vendetta. 

La fine di un amore porta sempre con sé un corollario di parole (e azioni) dettate dal rancore e dalla disperazione. In molti casi la delusione distrugge tutto quello che di buono è stato vissuto e costruito insieme: sogni, progetti, ambizioni. 

Qualcuno arriva a provare desideri di vendetta. Essere stati giocati, messi alla berlina, traditi, provoca reazioni viscerali estreme, che possono esprimersi sul web, (revenge porn) oppure attraverso scontri verbali o fisici. 

In ultimo c’è l’Altro, il terzo incomodo. Ritenuto, a torto, il vero responsabile della fine della relazione, anche il terzo vertice del triangolo è fatto oggetto di attacchi più o meno diretti, e più o meno mediati. La rabbia che porta a generare queste reazioni, però, non è nulla se paragonata al vuoto che accompagna la fine di alcune relazioni. 

Io, Noi e l’angoscia di morte. 

La vera tragedia è la fine del ‘Noi’. Vivere insieme significa ragionare a due, pianificare per due, e questo alla lunga potrebbe essere rischioso. La fine di un amore svela l’esistenza autonoma (dimenticata) dell’Io, che per quanto possa allacciare relazioni con altri, resta un individuo separato. Ciascuno di noi è un essere differenziato portatore di posizioni individuali, non necessariamente sempre coincidenti con quelle della coppia.  

Perdere di vista questa differenziazione, ossia annullare la propria identità personale a vantaggio dell’identità di coppia, è la causa principale del terrore di perdere l’altra persona. Per fare un esempio si possono citare i gruppi musicali di grande successo. Sovente capita che non tutti i componenti di questi gruppi siano perfettamente allineati con il genere artistico che li rende famosi, ma che anzi per fare parte di quel gruppo abbiano incanalato, deviato, le loro competenze e i loro interessi in funzione di quel genere. Tutti sappiamo di come questi gruppi siano attraversati da tensioni molto forti, proprio a causa delle decisioni sulla linea artistica da tenere. Se i membri non riescono ad esprimere la loro individualità, può capitare che lascino il gruppo, e che seguano carriere individuali. In altre parole, fino a quando i membri si annullano per aderire alla linea del gruppo, va tutto bene, ma non appena si accorgono che la linea del gruppo diverge troppo da quella individuale, le tensioni cominciano a essere sempre più forti. 

Per questo alla fine di una relazione la cosa che spaventa maggiormente è trovarsi spogli: non avere un’identità se non quella di coppia, non avere una propria individualità se non associata a quella di un’altra persona. Questa paura assomiglia da molto vicino all’angoscia di poter morire da un momento all’altro. Perché cos’altro è la morte psichica se non accorgersi di non esistere ?  

Rifondare l’Umanesimo: l’uomo dopo il nichilismo tecnocratico

Spegnere i dispositivi un’ora al giorno

L’identità liquida, lo sappiamo bene, è correlata alla difficoltà di spegnere i nostri dispositivi almeno per un po’. La ‘possibilità’ tecnica di essere trovati in ogni momento della giornata è diventata ‘necessità’, al punto che qualcuno vorrebbe essere trovato anche quando nessuno lo cerca: durante la pausa caffè, quando si trova al concerto, o mentre sale su un aereo. 

Sembra quasi che, quando facciamo qualcosa, siamo più interessati a tutto il resto che a quella cosa, che la nostra attenzione sia rivolta più al web che al qui e ora. 

Spegnere i dispositivi per un’ora al giorno sarebbe un ottimo esercizio per tornare nella nostra dimensione: quella della nostra famiglia, dei nostri interessi, della nostra quotidianità (sempre che non sia troppo brutta!).

Frammentazione e vuoto interiore

La società liquida che ci circonda crea identità liquide, che però io preferisco definire frammentate. Non a caso i disturbi mentali e il disagio psichico stanno aumentando a vista d’occhio, e questo perché è difficile convogliare troppi stimoli in una coscienza di sé unitaria e coesa. Lo abbiamo già detto: la globalizzazione ha portato veri vantaggi a pochi, ma disagi a molti, moltissimi. L’esposizione massiva ad un mondo politico, economico e sociale plurale, frastagliato e sovente anzi scisso, non può che creare disagio alla nostra identità individuale. E infatti presi da mille stimoli relativi alla nostra squadra di calcio, (ne siamo informati costantemente) a quello che riguarda il nostro attore preferito, (or ora ha fatto una diretta dal bagno di casa sua mentre la moglie lo pettina) o dalle stories degli amici del mare, ci chiediamo: in questa casa, su questo divano, in questi vestiti c’è qualcuno? O c’è solo un corpo la cui mente è ovunque fuorché su questo divano, in questi vestiti, un corpo di cui soltanto gli occhi si muovono da sinistra a destra di un pezzo di plastica luminoso? Ecco allora l’esigenza di ripartire da un altro modello, da altri presupposti. Perché il nichilismo della tecnica e dell’economia ci riduce a meri consumatori, con l’identità del consumatore come l’unica vera identità che l’esterno è in grado di rinforzarci. E quale può essere il riscatto dal nichilismo se non l’unica cosa di cui abbiamo effettiva certezza, ovvero la nostra esistenza? 

Quando Heidegger si chiedeva ‘perché vi è l’essente e non il nulla?’ dava per scontato che l’essente ci fosse. E anche dell’angoscia non sapeva dare conto di quale effettivo legame avesse con l’essere, intendo dal punto di vista psichico, dal punto di vista della passione (o dell’Amore, direbbe Dante Alighieri) che fa muovere gli uomini. 

Del resto la persona depressa, senza stimoli, è una persona che ha perso la voglia di appassionarsi alle cose, che si tratti di un viaggio, di una cena con gli amici o di una serata allo stadio. 

Ripartire da noi, dall’uomo, ossia fondare un nuovo Umanesimo: questo può essere il riscatto dalla dannazione del nichilismo.  

Rifondare l’Umanesimo 

Nel Quattrocento la (ri)scoperta delle humanae litterae portò alla nascita dell’Umanesimo, ossia a quel processo culturale che mise l’uomo al centro di ogni discussione. Seguo pienamente la lezione di Julia Kristeva, per dire che solo un nuovo umanesimo può rimettere le cose a posto in questa iper frammentazione del soggetto contemporaneo. L’economia, la tecnica, persino l’ambientalismo, tutto può e deve essere ridefinito in termini umanistici. L’uomo deve essere l’origine e il terminale di tutte le attività fatte dall’uomo stesso.

La mia non vuole essere una dottrina politica, ci mancherebbe altro, mi limito a definire una prospettiva psicologica, ossia un modo di stare al mondo. Ciascuno di noi è chiamato a fare umanesimo con la sua vita, a mettere al centro anzitutto se stesso come essere umano, con le esigenze e le peculiarità che caratterizzano lui, e perciò non tutti gli altri. 

Da questo punto di vista, come possiamo vedere, si potrebbe ridefinire ogni approccio al disagio psichico. Dai disturbi della condotta alimentare (cosa significa il peso per te? Per te, non per il mondo) all’ansia, alla depressione, ai disturbi del sonno ecc…

E un primo piccolo passo per l’uomo, ma che sarebbe davvero un grande passo per l’umanità, potrebbe essere quello di spegnere i nostri dispositivi almeno per un’ora tutti i giorni. In questo modo cominceremmo finalmente a mettere noi stessi, la nostra famiglia, la nostra quotidianità (sempre che non sia troppo brutta!) al centro di tutte le nostre attenzioni. 

La notte dell’Heysel: trauma e narrazione

La tragedia 

La sera del 29 maggio 1985 si consumò una delle più grandi tragedie del calcio italiano. Poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool, un muro interno dello stadio Heysel crollò sotto il peso del pubblico, provocando 39 morti e almeno 600 feriti. 

Nella memoria collettiva di chi quel giorno era allo stadio, e di chi invece era solo lontano spettatore, quella vicenda venne registrata come un autentico trauma

Il trauma 

Migliaia di appassionati faticano ancora oggi ad avere un pensiero critico riguardo questa storia drammatica. Si dividono tra tifoserie scambiandosi critiche, accuse, veleni come se chi hanno davanti fosse in qualche modo responsabile dell’accaduto. 

Questo significa, evidentemente, che sono stati segnati da molto vicino: ossia che non sono ancora riusciti a elaborare la tragedia e sistemarla in qualche cassetto della mente. 

Il trauma dei presenti sopravvissuti sta tutto nelle immagini e nelle storie che abbiamo visto, sentito e risentito. Un tempo senza smartphones, in un paese straniero, con una lingua straniera. Nessuna organizzazione, tassisti arroganti, riconoscere i morti nelle tende di notte con l’aiuto di torce.  

E poi c’è il trauma di chi guardava in tv. Ritengo che l’aspetto che abbia favorito la registrazione traumatica sia stato da un lato l’esposizione non mediata all’evento. La tv quella sera ha fatto da finestra aperta sullo stadio. Se sotto casa c’è un incidente, per non vederlo devi chiudere la finestra: allo stesso modo quella sera gli spettatori avrebbero avuto come unica alternativa quella di spegnere gli apparecchi. Questo mi fa pensare, per esempio, a quei bambini che sono testimoni di atti violenti a casa, magari compiuti anche ai loro danni. Dover guardare impotenti senza poter fare o dire niente, perché non è previsto. Se ci pensate è la stessa cosa che è avvenuta la notte dell’Heysel: spettatori impotenti davanti ad una finestra.

Dall’altro lato, un secondo aspetto che ha favorito la registrazione traumatica, è stata la mancanza di preparazione della regia televisiva, che non è stata in grado di fornire una lettura ‘digerita’ al pubblico. 

Superamento del trauma e lettura narrativa 

Inserire un evento traumatico in una narrazione integrata della propria storia è la chiave per superarlo e non restarne vittima. 

Quello che è mancato a molti spettatori della notte dell’Heysel è la ricostruzione a posteriori: non tanto dell’evento in sé, quanto delle loro personali reazioni emotive e cognitive. Il sensazionalismo dei media, questo sì deprecabile, e molto, ha soffiato sul fuoco dell’evento mediatico, cavalcando la polemica tra le fazioni, e non accorgendosi che non sempre dire tutto quello che si può è meglio che dire quello che si deve.

Porre domande del tipo: ‘Cos’altro avrebbero potuto fare gli organizzatori?’ O ‘Cos’altro avrebbero potuto fare le società, i giocatori, gli spettatori sopravvissuti?’ Avrebbe certamente aiutato gli italiani a razionalizzare, ossia a trasformare una tempesta emotiva in pensieri, progetti, azioni. Ma non è stato fatto, e del resto non ci si può aspettare analisi, pensiero, restituzione da chi passa la vita a descrivere la polvere, senza mai chiedersi che cosa l’abbia provocata.

Non so se parlando della tragedia dell’Heysel sono riuscito a dire qualcosa che ancora non era stato detto. Sicuramente, però, sono riuscito a parlare del trauma, e di come anche un evento della vita quotidiana, se non correttamente elaborato, può diventare un insuperabile trauma personale e collettivo. 

Cancro del seno: il femminile e la sua immagine

Il femminile vilipeso

Il tumore del seno colpisce nel corpo e nella femminilità. Il tipo di imbarazzo che la donna vive nel suo rapporto con l’altro (altra) in seguito a questo tipo di malattia va ben oltre la menomazione fisica. Entra nel profondo del suo femminile, ha a che fare con la sua Femminilità. 

L’offesa del seno può diventare vilipendio all’intero essere donna: per questo non basta che la paziente sia preparata o sostenuta, è tutto il mondo che le gira intorno che deve essere pronto, che deve sapere come reagire. 

L’immagine del femminile 

Sappiamo che la costruzione del femminile è un processo evolutivo/individuativo che comincia ben prima dell’adolescenza, e termina (se mai termina) con l’età adulta.  

L’immagine che la donna si costruisce di sé è una difficile sintesi tra i rimandi avuti dalla famiglia di origine, i condizionamenti della società, le lotte di potere/consenso nel gruppo delle pari in adolescenza, le restituzioni avute nelle relazioni affettive e infine il negoziato che lei stessa è riuscita a compiere tra il suo sé ideale e il suo sé reale. Il cancro al seno può scardinare questo impianto. Abbatte l’immagine del femminile e la sostituisce con quella del peggiore degli incubi: sono brutta, non piaccio, non piaccio anzitutto a me stessa. 

Lo sguardo dell’altro

E poi arriva l’Altro. In genere siamo troppo abituati a non guardare le ferite, a distoglierne lo sguardo. Abbiamo la tendenza a evitare che il nostro occhio si fermi su ciò che è lacerato, lesionato, soprattutto se sappiamo ancora dolente.

Vale anche per le ferite psichiche. Cerchiamo di non parlarne, facciamo finta di niente. Ma così facendo peggioriamo le cose: perché ignorare una ferita non equivale a rimuoverla. Anzi continua a far soffrire, forse ancora di più. 

Così la donna ferita dal cancro al seno ha di fronte a sé qualcuno che fa finta di niente, che sorvola, che non commenta. Ed ella vede crollare anche un’altra immagine: quella che le arriva dagli occhi altrui. Perché lo sguardo dell’altro può ferire più della propria stessa coscienza. Il peggiore degli incubi si arricchisce così di una prova ulteriore: non piaccio a chi mi ama.

Ecco allora quale può essere il ruolo dell’Altro, ciò su cui deve essere educato: la donna che ha sconfitto la malattia deve sentire di avere vinto. E chi le sta vicino deve sapere amare ognuna delle sue ferite: perché esse faranno parte integrante, d’ora in poi, della sua nuova immagine. 

Bambini: comunicare la malattia di un genitore?

Infanzia e malattia

Due termini a tutta prima in contrapposizione, o che almeno fatichiamo a leggere associati. Tratterò altrove il tema della malattia del bambino, dell’angoscia di perderlo ancora prima di averlo trovato del tutto, e di vederlo sfiorire tra difficoltà e sofferenze. E di quel contesto ‘tra i due mondi’ che circonda le famiglie dei bambini malati, in cui si rincorre una parvenza di normalità, pur sapendo che è solo finzione. Vorrei ora parlare della malattia del genitore, ovvero di quando è il genitore a sapere di avere poco tempo, e che vorrebbe fare con il bambino più cose di quelle che alla fine, giocoforza, riuscirà a fare. E a dire. Ma le condizioni di salute non lo permetteranno. 

Il bambino davanti al dolore

Molti adulti cercano di lasciare il dolore fuori dal mondo del bambino. E’ una forma di protezione, non c’è dubbio, fatta con le migliori intenzioni. Ma tenere il bambino all’oscuro delle condizioni di salute di un genitore non è una buona idea. ‘Non diciamo questa cosa perché potrebbe spaventarsi’. ‘Non facciamo quest’altra cosa perché potrebbe preoccuparsi’. Eccetera. 

Questa premura può avere almeno due tipi di conseguenze. 

Una conseguenza fattuale, concreta, ma direi alla fine dei conti relazionale, è che se il genitore non dovesse superare la malattia, l’incidente, ecc… l’evento resterebbe fuori dall’esperienza e quindi dal ricordo del bambino. Un paziente mi raccontò una volta: ‘La notte in cui morì mia madre andai a letto come tutte le sere, al mattino mi dissero che la mamma non sarebbe più tornata a casa.’ Un altro ricorda così la perdita del padre: ‘Mi dicevano di stare tranquillo, che papà sarebbe tornato. Poi un giorno mi portarono in una chiesa, ricordo solo che tutti piangevano.’ Questi sono casi di bambini a cui non è stata comunicata la realtà delle cose, e non hanno memoria degli eventi. Come si vede, però, la memoria del trauma resta, eccome. Soltanto che il trauma non riguarda la perdita del genitore, l’evento della scomparsa in sé, ma eventi accaduti nei giorni successivi. 

‘Il bambino non deve preoccuparsi, spaventarsi, o essere terrorizzato’. Ma se la mamma, poniamo, è stata investita da un autobus, o ha una grave malattia, e non farà ritorno a casa, il terrore, l’angoscia, la preoccupazione sono più che legittimi. 

Ritengo che in alcuni casi il bambino possa e debba essere esposto alla preoccupazione, possa e debba essere posto davanti al dolore.

La seconda conseguenza, più clinica, diciamo così, o personologica, è il narcisismo

Abituare un bambino a non essere scosso neppure davanti alla possibile morte di un genitore, è molto pericoloso. Lo si allena a questo tipo di equivalenza: ‘io sono importante, il mio equilibrio è importante. Perciò non mi angosciate, non mi spaventate, perché altrimenti potrei soffrire’. Insegnare ad un bambino che le cose del mondo, anche le più gravi, non devono disturbare la sua quotidianità, perché le sue esigenze sono prioritarie, può essere controproducente. La protezione può favorire il narcisismo, ossia venire fraintesa. 

Allegorie

Per queste ragioni credo che la malattia, il dolore, la sofferenza debbano entrare nel mondo del bambino: con tutte le cautele possibili, non c’è dubbio, ma ci debbano entrare. Un’alternativa può essere grazie ad una storia, o con l’utilizzo di un’allegoria. 

E’ giusto che i bambini abbiano memoria dell’ultima volta in cui videro un genitore, delle ultime parole che ci scambiarono, dell’ultima cosa che pensarono a suo riguardo. 

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