‘Non ti amo più’. E poi? La morte dell’Io dopo il Noi.

Rabbia, odio, vendetta. 

La fine di un amore porta sempre con sé un corollario di parole (e azioni) dettate dal rancore e dalla disperazione. In molti casi la delusione distrugge tutto quello che di buono è stato vissuto e costruito insieme: sogni, progetti, ambizioni. 

Qualcuno arriva a provare desideri di vendetta. Essere stati giocati, messi alla berlina, traditi, provoca reazioni viscerali estreme, che possono esprimersi sul web, (revenge porn) oppure attraverso scontri verbali o fisici. 

In ultimo c’è l’Altro, il terzo incomodo. Ritenuto, a torto, il vero responsabile della fine della relazione, anche il terzo vertice del triangolo è fatto oggetto di attacchi più o meno diretti, e più o meno mediati. La rabbia che porta a generare queste reazioni, però, non è nulla se paragonata al vuoto che accompagna la fine di alcune relazioni. 

Io, Noi e l’angoscia di morte. 

La vera tragedia è la fine del ‘Noi’. Vivere insieme significa ragionare a due, pianificare per due, e questo alla lunga potrebbe essere rischioso. La fine di un amore svela l’esistenza autonoma (dimenticata) dell’Io, che per quanto possa allacciare relazioni con altri, resta un individuo separato. Ciascuno di noi è un essere differenziato portatore di posizioni individuali, non necessariamente sempre coincidenti con quelle della coppia.  

Perdere di vista questa differenziazione, ossia annullare la propria identità personale a vantaggio dell’identità di coppia, è la causa principale del terrore di perdere l’altra persona. Per fare un esempio si possono citare i gruppi musicali di grande successo. Sovente capita che non tutti i componenti di questi gruppi siano perfettamente allineati con il genere artistico che li rende famosi, ma che anzi per fare parte di quel gruppo abbiano incanalato, deviato, le loro competenze e i loro interessi in funzione di quel genere. Tutti sappiamo di come questi gruppi siano attraversati da tensioni molto forti, proprio a causa delle decisioni sulla linea artistica da tenere. Se i membri non riescono ad esprimere la loro individualità, può capitare che lascino il gruppo, e che seguano carriere individuali. In altre parole, fino a quando i membri si annullano per aderire alla linea del gruppo, va tutto bene, ma non appena si accorgono che la linea del gruppo diverge troppo da quella individuale, le tensioni cominciano a essere sempre più forti. 

Per questo alla fine di una relazione la cosa che spaventa maggiormente è trovarsi spogli: non avere un’identità se non quella di coppia, non avere una propria individualità se non associata a quella di un’altra persona. Questa paura assomiglia da molto vicino all’angoscia di poter morire da un momento all’altro. Perché cos’altro è la morte psichica se non accorgersi di non esistere ?  

Rifondare l’Umanesimo: l’uomo dopo il nichilismo tecnocratico

Spegnere i dispositivi un’ora al giorno

L’identità liquida, lo sappiamo bene, è correlata alla difficoltà di spegnere i nostri dispositivi almeno per un po’. La ‘possibilità’ tecnica di essere trovati in ogni momento della giornata è diventata ‘necessità’, al punto che qualcuno vorrebbe essere trovato anche quando nessuno lo cerca: durante la pausa caffè, quando si trova al concerto, o mentre sale su un aereo. 

Sembra quasi che, quando facciamo qualcosa, siamo più interessati a tutto il resto che a quella cosa, che la nostra attenzione sia rivolta più al web che al qui e ora. 

Spegnere i dispositivi per un’ora al giorno sarebbe un ottimo esercizio per tornare nella nostra dimensione: quella della nostra famiglia, dei nostri interessi, della nostra quotidianità (sempre che non sia troppo brutta!).

Frammentazione e vuoto interiore

La società liquida che ci circonda crea identità liquide, che però io preferisco definire frammentate. Non a caso i disturbi mentali e il disagio psichico stanno aumentando a vista d’occhio, e questo perché è difficile convogliare troppi stimoli in una coscienza di sé unitaria e coesa. Lo abbiamo già detto: la globalizzazione ha portato veri vantaggi a pochi, ma disagi a molti, moltissimi. L’esposizione massiva ad un mondo politico, economico e sociale plurale, frastagliato e sovente anzi scisso, non può che creare disagio alla nostra identità individuale. E infatti presi da mille stimoli relativi alla nostra squadra di calcio, (ne siamo informati costantemente) a quello che riguarda il nostro attore preferito, (or ora ha fatto una diretta dal bagno di casa sua mentre la moglie lo pettina) o dalle stories degli amici del mare, ci chiediamo: in questa casa, su questo divano, in questi vestiti c’è qualcuno? O c’è solo un corpo la cui mente è ovunque fuorché su questo divano, in questi vestiti, un corpo di cui soltanto gli occhi si muovono da sinistra a destra di un pezzo di plastica luminoso? Ecco allora l’esigenza di ripartire da un altro modello, da altri presupposti. Perché il nichilismo della tecnica e dell’economia ci riduce a meri consumatori, con l’identità del consumatore come l’unica vera identità che l’esterno è in grado di rinforzarci. E quale può essere il riscatto dal nichilismo se non l’unica cosa di cui abbiamo effettiva certezza, ovvero la nostra esistenza? 

Quando Heidegger si chiedeva ‘perché vi è l’essente e non il nulla?’ dava per scontato che l’essente ci fosse. E anche dell’angoscia non sapeva dare conto di quale effettivo legame avesse con l’essere, intendo dal punto di vista psichico, dal punto di vista della passione (o dell’Amore, direbbe Dante Alighieri) che fa muovere gli uomini. 

Del resto la persona depressa, senza stimoli, è una persona che ha perso la voglia di appassionarsi alle cose, che si tratti di un viaggio, di una cena con gli amici o di una serata allo stadio. 

Ripartire da noi, dall’uomo, ossia fondare un nuovo Umanesimo: questo può essere il riscatto dalla dannazione del nichilismo.  

Rifondare l’Umanesimo 

Nel Quattrocento la (ri)scoperta delle humanae litterae portò alla nascita dell’Umanesimo, ossia a quel processo culturale che mise l’uomo al centro di ogni discussione. Seguo pienamente la lezione di Julia Kristeva, per dire che solo un nuovo umanesimo può rimettere le cose a posto in questa iper frammentazione del soggetto contemporaneo. L’economia, la tecnica, persino l’ambientalismo, tutto può e deve essere ridefinito in termini umanistici. L’uomo deve essere l’origine e il terminale di tutte le attività fatte dall’uomo stesso.

La mia non vuole essere una dottrina politica, ci mancherebbe altro, mi limito a definire una prospettiva psicologica, ossia un modo di stare al mondo. Ciascuno di noi è chiamato a fare umanesimo con la sua vita, a mettere al centro anzitutto se stesso come essere umano, con le esigenze e le peculiarità che caratterizzano lui, e perciò non tutti gli altri. 

Da questo punto di vista, come possiamo vedere, si potrebbe ridefinire ogni approccio al disagio psichico. Dai disturbi della condotta alimentare (cosa significa il peso per te? Per te, non per il mondo) all’ansia, alla depressione, ai disturbi del sonno ecc…

E un primo piccolo passo per l’uomo, ma che sarebbe davvero un grande passo per l’umanità, potrebbe essere quello di spegnere i nostri dispositivi almeno per un’ora tutti i giorni. In questo modo cominceremmo finalmente a mettere noi stessi, la nostra famiglia, la nostra quotidianità (sempre che non sia troppo brutta!) al centro di tutte le nostre attenzioni. 

La notte dell’Heysel: trauma e narrazione

La tragedia 

La sera del 29 maggio 1985 si consumò una delle più grandi tragedie del calcio italiano. Poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool, un muro interno dello stadio Heysel crollò sotto il peso del pubblico, provocando 39 morti e almeno 600 feriti. 

Nella memoria collettiva di chi quel giorno era allo stadio, e di chi invece era solo lontano spettatore, quella vicenda venne registrata come un autentico trauma

Il trauma 

Migliaia di appassionati faticano ancora oggi ad avere un pensiero critico riguardo questa storia drammatica. Si dividono tra tifoserie scambiandosi critiche, accuse, veleni come se chi hanno davanti fosse in qualche modo responsabile dell’accaduto. 

Questo significa, evidentemente, che sono stati segnati da molto vicino: ossia che non sono ancora riusciti a elaborare la tragedia e sistemarla in qualche cassetto della mente. 

Il trauma dei presenti sopravvissuti sta tutto nelle immagini e nelle storie che abbiamo visto, sentito e risentito. Un tempo senza smartphones, in un paese straniero, con una lingua straniera. Nessuna organizzazione, tassisti arroganti, riconoscere i morti nelle tende di notte con l’aiuto di torce.  

E poi c’è il trauma di chi guardava in tv. Ritengo che l’aspetto che abbia favorito la registrazione traumatica sia stato da un lato l’esposizione non mediata all’evento. La tv quella sera ha fatto da finestra aperta sullo stadio. Se sotto casa c’è un incidente, per non vederlo devi chiudere la finestra: allo stesso modo quella sera gli spettatori avrebbero avuto come unica alternativa quella di spegnere gli apparecchi. Questo mi fa pensare, per esempio, a quei bambini che sono testimoni di atti violenti a casa, magari compiuti anche ai loro danni. Dover guardare impotenti senza poter fare o dire niente, perché non è previsto. Se ci pensate è la stessa cosa che è avvenuta la notte dell’Heysel: spettatori impotenti davanti ad una finestra.

Dall’altro lato, un secondo aspetto che ha favorito la registrazione traumatica, è stata la mancanza di preparazione della regia televisiva, che non è stata in grado di fornire una lettura ‘digerita’ al pubblico. 

Superamento del trauma e lettura narrativa 

Inserire un evento traumatico in una narrazione integrata della propria storia è la chiave per superarlo e non restarne vittima. 

Quello che è mancato a molti spettatori della notte dell’Heysel è la ricostruzione a posteriori: non tanto dell’evento in sé, quanto delle loro personali reazioni emotive e cognitive. Il sensazionalismo dei media, questo sì deprecabile, e molto, ha soffiato sul fuoco dell’evento mediatico, cavalcando la polemica tra le fazioni, e non accorgendosi che non sempre dire tutto quello che si può è meglio che dire quello che si deve.

Porre domande del tipo: ‘Cos’altro avrebbero potuto fare gli organizzatori?’ O ‘Cos’altro avrebbero potuto fare le società, i giocatori, gli spettatori sopravvissuti?’ Avrebbe certamente aiutato gli italiani a razionalizzare, ossia a trasformare una tempesta emotiva in pensieri, progetti, azioni. Ma non è stato fatto, e del resto non ci si può aspettare analisi, pensiero, restituzione da chi passa la vita a descrivere la polvere, senza mai chiedersi che cosa l’abbia provocata.

Non so se parlando della tragedia dell’Heysel sono riuscito a dire qualcosa che ancora non era stato detto. Sicuramente, però, sono riuscito a parlare del trauma, e di come anche un evento della vita quotidiana, se non correttamente elaborato, può diventare un insuperabile trauma personale e collettivo. 

Cancro del seno: il femminile e la sua immagine

Il femminile vilipeso

Il tumore del seno colpisce nel corpo e nella femminilità. Il tipo di imbarazzo che la donna vive nel suo rapporto con l’altro (altra) in seguito a questo tipo di malattia va ben oltre la menomazione fisica. Entra nel profondo del suo femminile, ha a che fare con la sua Femminilità. 

L’offesa del seno può diventare vilipendio all’intero essere donna: per questo non basta che la paziente sia preparata o sostenuta, è tutto il mondo che le gira intorno che deve essere pronto, che deve sapere come reagire. 

L’immagine del femminile 

Sappiamo che la costruzione del femminile è un processo evolutivo/individuativo che comincia ben prima dell’adolescenza, e termina (se mai termina) con l’età adulta.  

L’immagine che la donna si costruisce di sé è una difficile sintesi tra i rimandi avuti dalla famiglia di origine, i condizionamenti della società, le lotte di potere/consenso nel gruppo delle pari in adolescenza, le restituzioni avute nelle relazioni affettive e infine il negoziato che lei stessa è riuscita a compiere tra il suo sé ideale e il suo sé reale. Il cancro al seno può scardinare questo impianto. Abbatte l’immagine del femminile e la sostituisce con quella del peggiore degli incubi: sono brutta, non piaccio, non piaccio anzitutto a me stessa. 

Lo sguardo dell’altro

E poi arriva l’Altro. In genere siamo troppo abituati a non guardare le ferite, a distoglierne lo sguardo. Abbiamo la tendenza a evitare che il nostro occhio si fermi su ciò che è lacerato, lesionato, soprattutto se sappiamo ancora dolente.

Vale anche per le ferite psichiche. Cerchiamo di non parlarne, facciamo finta di niente. Ma così facendo peggioriamo le cose: perché ignorare una ferita non equivale a rimuoverla. Anzi continua a far soffrire, forse ancora di più. 

Così la donna ferita dal cancro al seno ha di fronte a sé qualcuno che fa finta di niente, che sorvola, che non commenta. Ed ella vede crollare anche un’altra immagine: quella che le arriva dagli occhi altrui. Perché lo sguardo dell’altro può ferire più della propria stessa coscienza. Il peggiore degli incubi si arricchisce così di una prova ulteriore: non piaccio a chi mi ama.

Ecco allora quale può essere il ruolo dell’Altro, ciò su cui deve essere educato: la donna che ha sconfitto la malattia deve sentire di avere vinto. E chi le sta vicino deve sapere amare ognuna delle sue ferite: perché esse faranno parte integrante, d’ora in poi, della sua nuova immagine. 

Bambini: comunicare la malattia di un genitore?

Infanzia e malattia

Due termini a tutta prima in contrapposizione, o che almeno fatichiamo a leggere associati. Tratterò altrove il tema della malattia del bambino, dell’angoscia di perderlo ancora prima di averlo trovato del tutto, e di vederlo sfiorire tra difficoltà e sofferenze. E di quel contesto ‘tra i due mondi’ che circonda le famiglie dei bambini malati, in cui si rincorre una parvenza di normalità, pur sapendo che è solo finzione. Vorrei ora parlare della malattia del genitore, ovvero di quando è il genitore a sapere di avere poco tempo, e che vorrebbe fare con il bambino più cose di quelle che alla fine, giocoforza, riuscirà a fare. E a dire. Ma le condizioni di salute non lo permetteranno. 

Il bambino davanti al dolore

Molti adulti cercano di lasciare il dolore fuori dal mondo del bambino. E’ una forma di protezione, non c’è dubbio, fatta con le migliori intenzioni. Ma tenere il bambino all’oscuro delle condizioni di salute di un genitore non è una buona idea. ‘Non diciamo questa cosa perché potrebbe spaventarsi’. ‘Non facciamo quest’altra cosa perché potrebbe preoccuparsi’. Eccetera. 

Questa premura può avere almeno due tipi di conseguenze. 

Una conseguenza fattuale, concreta, ma direi alla fine dei conti relazionale, è che se il genitore non dovesse superare la malattia, l’incidente, ecc… l’evento resterebbe fuori dall’esperienza e quindi dal ricordo del bambino. Un paziente mi raccontò una volta: ‘La notte in cui morì mia madre andai a letto come tutte le sere, al mattino mi dissero che la mamma non sarebbe più tornata a casa.’ Un altro ricorda così la perdita del padre: ‘Mi dicevano di stare tranquillo, che papà sarebbe tornato. Poi un giorno mi portarono in una chiesa, ricordo solo che tutti piangevano.’ Questi sono casi di bambini a cui non è stata comunicata la realtà delle cose, e non hanno memoria degli eventi. Come si vede, però, la memoria del trauma resta, eccome. Soltanto che il trauma non riguarda la perdita del genitore, l’evento della scomparsa in sé, ma eventi accaduti nei giorni successivi. 

‘Il bambino non deve preoccuparsi, spaventarsi, o essere terrorizzato’. Ma se la mamma, poniamo, è stata investita da un autobus, o ha una grave malattia, e non farà ritorno a casa, il terrore, l’angoscia, la preoccupazione sono più che legittimi. 

Ritengo che in alcuni casi il bambino possa e debba essere esposto alla preoccupazione, possa e debba essere posto davanti al dolore.

La seconda conseguenza, più clinica, diciamo così, o personologica, è il narcisismo

Abituare un bambino a non essere scosso neppure davanti alla possibile morte di un genitore, è molto pericoloso. Lo si allena a questo tipo di equivalenza: ‘io sono importante, il mio equilibrio è importante. Perciò non mi angosciate, non mi spaventate, perché altrimenti potrei soffrire’. Insegnare ad un bambino che le cose del mondo, anche le più gravi, non devono disturbare la sua quotidianità, perché le sue esigenze sono prioritarie, può essere controproducente. La protezione può favorire il narcisismo, ossia venire fraintesa. 

Allegorie

Per queste ragioni credo che la malattia, il dolore, la sofferenza debbano entrare nel mondo del bambino: con tutte le cautele possibili, non c’è dubbio, ma ci debbano entrare. Un’alternativa può essere grazie ad una storia, o con l’utilizzo di un’allegoria. 

E’ giusto che i bambini abbiano memoria dell’ultima volta in cui videro un genitore, delle ultime parole che ci scambiarono, dell’ultima cosa che pensarono a suo riguardo. 

Pink Floyd: Rock o esistenzialismo?

Se una parte considerevole dell’opera dei Beatles è condizionata dalla presenza di Yoko Ono, una parte altrettanto considerevole dell’opera dei Pink Floyd ruota intorno all’assenza di Syd Barrett. 

Mi riferisco alla fase degli anni Settanta che va da ‘The dark side of the moon’ a ‘The wall’, non a caso quella che ha costruito le basi per il taglio finale

Esistenzialismo

Tra i mille temi toccati dai Pink Floyd nella loro enorme produzione, (e qui vanno considerate anche le carriere individuali) l’esistenzialismo ha certamente un ruolo considerevole. L’esistenzialismo dei Pink Floyd è di tipo umanista, direi anzi relazionale. Nell’arte dei Pink Floyd sembra che ci sia un’ombra, una presenza silenziosa, quella di Syd Barrett. Va tenuta in conto se si vogliono ben comprendere i loro brani straordinari. 

I Pink Floyd riflettono sul denaro, sulla politica internazionale, sulle eclissi lunari: ma queste riflessioni muovono da un’unica grande, malinconica, considerazione. Un bisbiglio, ma che vale quanto un intero progetto artistico: ‘How I wish, how I wish you were here.’ (‘Come vorrei, come vorrei che fossi qui.’)

Una considerazione esistenzialista, che è anche psicoanalitica: apre al riscatto dalla disperazione del nulla, sì, dal nichilismo, che in quegli anni tanto andava di moda. I Pink Floyd (senza volerlo?) abbracciano Sartre, Lacan e Julia Kristeva, in un progetto di promozione e rifondazione dell’Umanesimo. Perché se dopo Lacan posso dire: cosa sono io senza l’altro? Allora posso anche dire: cosa sono i Pink Floyd senza l’Altro? 

The Trial, il processo

Uno dei momenti più densi di significato, ma anche di sofferenza, della storia dei Pink Floyd è il processo di ‘The wall’. Dopo una vita di rovello interiore, di disagio, di incomprensioni da parte di chi lo circonda, Pink, il protagonista della storia, attraversa una grande crisi esistenziale. Gli autori del brano per salvarlo inscenano un processo, drammatico e caricaturale allo stesso tempo. L’imputato è stato colto in flagrante a mostrare sentimenti quasi umani, e questo non è previsto dal modello sociale. 

Il processo è un condensato dell’esistenzialismo dei Pink Floyd: dalla sua esecuzione, alla sua paradossale conclusione. 

Guardiamolo da vicino. Vengono chiamati a testimoniare in sequenza il maestro elementare,  la moglie, e la madre dell’imputato. 

Il maestro copre Pink di improperi, e attacca il sistema: ‘se fosse stato per me, signor giudice, l’avrei raddrizzato sin da piccolo: ma si sono messi in mezzo artisti e cuori teneri. Permettetemi un’ultima martellata, almeno oggi.’ 

A udire queste parole Pink rasenta la follia: possibile che nessuno capisca il suo dolore, che nessuno si renda conto? 

Arriva a testimoniare la moglie. Nella più classica tradizione di incomunicabilità matrimoniale, la moglie fa a pezzi Pink davanti a tutti: ‘con me non hai mai parlato, sei un rovina famiglie, spero gettino via la chiave.’ 

Infine arriva la madre. La donna urla il suo strazio, ma anche lei accusa il figlio: ‘se non mi avessi mai lasciata non ti saresti messo in pericolo.’

I Pink Floyd letteralmente qui aprono il baratro sotto i piedi del processato, che ormai preda della disperazione delira e crede di essere in carcere. 

Abbattere il muro

Ad un tratto, ecco la svolta esistenziale, anti nichilista, relazionale, diciamo pure rivoluzionaria, dei Pink Floyd: viene espressa per bocca del giudice. Egli è talmente disgustato dalle parole dei testimoni che dichiara: ‘qui non c’è nessun dubbio, la pena deve essere massima’. Con gran sorpresa, però, la pena inflitta dal giudice è l’abbattimento del muro. 

Abbattere il muro: quel muro difensivo che Pink si è costruito giorno dopo giorno, (‘Another brick in the wall’) durante tutta la sua adolescenza, significa uscire, tornare alla relazione, cercare l’altro. (O l’Altro? – Syd Barrett – Questo non lo sapremo mai.)

E uscire per tornare alla relazione è l’unica vera alternativa alla follia, e oggi lo sappiamo molto bene. Per questo ‘The Trial’ è la riscossa dalla dannazione, il rifiuto della relazione malata, tossica. Uno scatto della vita, prima della vera malattia mentale: la morte interiore.  

Inoltre in quegli anni il mondo era diviso da un muro: per questo la lezione esistenzialista dei Pink Floyd, quel ‘Tear down the wall’ ha una portata che va ben oltre i confini di un album musicale.

Ma in questo sta la grandezza dell’arte: che ogni volta sa stupire e dire cose diverse. 

Cos’è il metaverso? Come e perché cambierà la nostra psiche ? Realtà ‘diminuita’ e Avatar personalizzati.

Molti trascorrono diverse ore al giorno nel metaverso, e fra poco, c’è da scommetterci, toccherà anche ad altri. Ma quali sono le conseguenze di questa nuova modalità esistenziale? Chi sono gli Avatar, e perché sono diversi da noi? E soprattutto, come integrare mondi virtuali e meatspace ?

Realtà aumentata e dissociazione: l’angoscia del ritorno.

Partiamo da realtà aumentata e realtà virtuale. Vivere una dimensione diversa dalla nostra per svariate ore al giorno, come avviene nel metaverso, che sia per motivi di svago o per lavoro, e riferirsi ad essa come a qualcosa di ‘aumentato’ fa pensare che quando l’esperienza sarà finita, la nostra dimensione ci apparirà in qualche modo ‘diminuita’. Questa puntualizzazione va fatta perché alle spalle del nostro comportamento c’è sempre la nostra personalità. Esperienze di dissociazione (non patologiche, sia chiaro) possono portare all’angoscia del ritorno: una specie di malessere più o meno intenso dato dalla distanza tra quello che abbiamo nella vita di tutti i giorni e quello che abbiamo nella realtà dissociata. Un esempio può essere quello di quegli individui che detestano il loro contesto e si rifugiano nel mondo della lettura: divorano libri su libri, conoscendo realtà lontanissime, in fondo solo per sfuggire alla loro. 

Così trascorrere una giornata al museo del Louvre, o all’università di Berkley, oppure in una navicella spaziale sulla luna, e poi sfilare gli occhiali e ritrovarci nuovamente nella nostra casa, potrebbe essere molto pesante, se la nostra casa non ci piace, se la nostra vita non è soddisfacente. 

Avatar: il sé idealizzato.

L’uso di Avatar sarà sempre più frequente nel metaverso. Gli Avatar vanno scelti e costruiti tra le opzioni date dal sistema, ma l’unica cosa che non potremo scegliere sarà la personalità. Il nostro Avatar potrà essere alto o basso, palestrato o longilineo, avere i capelli corti o vestire alla messicana. Oppure potrà essere blu, con i capelli rossi, ecc…. ma quando si muoverà nel metaverso avrà la nostra personalità, saremo noi a muoverci dietro di lui. 

Dal punto di vista psichico questo significa soprattutto una cosa: se non amiamo come siamo, se vorremmo essere diversi, il virtuale ci offre questa opportunità. Per tutto il tempo in cui stiamo in quella dimensione siamo noi stessi idealizzati, il noi che vorremmo essere senza i nostri difetti più evidenti. Ma il gioco dura fino al termine della sessione: ad un certo punto ci toccherà di nuovo affrontare la realtà in presenza, senza Avatar, e converrà averci fatto l’abitudine. 

Abbandono, vergogna e narcisismo: perché alcune persone abbandonate ritengono di avere diritti speciali.

Egoismo narcisistico

Alcune persone che sono state abbandonate, e che hanno sofferto la vergogna di tale abbandono, sono portate a ritenersi in credito verso la vita e verso le altre persone. Queste persone credono di avere dei diritti speciali, di ‘meritare’ di più: pretendono che gli altri si diano da fare per loro. 

Questo egoismo, (in definitiva narcisismo) è una reazione che in una prima fase aiuta a sopravvivere all’abbandono, e soprattutto alla vergogna ad esso associata. Pensiamo, per esempio, a bambini di genitori divorziati in seguito a episodi eclatanti, che hanno messo alla berlina la famiglia, o coperto questi bambini di ridicolo: se hanno covato la convinzione magica di avere diritto ad un riscatto, lo hanno fatto per trovare una ragione, per resistere alla vergogna. 

L’egoismo narcisistico diventa un collante interno rispetto all’autostima e alla percezione di essere amabili, di avere un valore personale. ‘Proprio a me fate questo? Io che sono così speciale e degno di nota?’ Se questa reazione può essere tipica nell’infanzia, non è escluso che si presenti anche in età adulta, di fronte ad un abbandono inatteso. L’adulto abbandonato ha una struttura di personalità più evoluta e coesa del bambino, mette in atto un ventaglio di reazioni comportamentali e psichiche più evolute, che lo aiutano a elaborare l’abbandono e la vergogna in maniera più matura. Tuttavia in alcuni casi la difesa narcisistica è inevitabile, e, se posso espormi, anche utile. Ma chiaramente deve avere estensione spaziale e temporale limitate, ossia deve valere per alcune persone, non per tutti, e soltanto per un certo periodo di tempo. 

Relazioni tossiche o disfunzionali

Quando questo atteggiamento diventa generalizzato, invece, si sposta dalle aspettative legate alle relazioni affettive, ovvero ai timori di essere (nuovamente) abbandonati, e si estende a tutti gli ambiti della vita. Ritenere di avere diritti speciali, o che gli altri siano sempre a disposizione, è tipico, ad esempio, di alcuni tossicodipendenti, o di persone che vivono condizioni particolari: essi tiranneggiano chi li circonda con lo scopo di venire serviti. In questi casi ritenere di avere diritto ad un trattamento speciale in virtù delle sofferenze patite in passato falsa la realtà e soprattutto falsa le relazioni. L’aspetto patogeno di questa posizione è che soltanto alcuni si adegueranno e decideranno di restare accanto a questi individui: quelli più deboli caratterialmente, o fragili emotivamente, o bisognosi di avere qualcuno da idealizzare. Mentre chi è più forte, o vorrebbe un atteggiamento più simmetrico probabilmente si allontanerà da loro: reiterando,  di fatto, l’abbandono

Sportivi in pensione: povertà e depressione dopo il ritiro dalle scene.

Appendere le scarpette al chiodo, e poi? La difficoltà con cui molti sportivi affrontano il ritiro la dice lunga sulle implicazioni di tale passaggio: inevitabile, ma estremamente doloroso. 

In psicologia del lavoro è nota da tempo la prima fase della pensione, quella fatta di grandi vuoti e smarrimento, in cui gli individui affrontano un cambiamento delle routine quotidiane al quale è difficile adeguarsi. 

Il mondo del professionismo sportivo non è esente da queste dinamiche, com’è facile intuire. Vediamo sovente, infatti, grandi atleti prolungare testardamente le loro carriere, a rischio dell’auto vilipendio, e non tanto per ragioni economiche, quanto per la paura di quella prima domenica, quella in cui gli altri giocheranno senza di loro. 

Rischio povertà

Diverse ricerche mostrano la difficoltà degli atleti ad abituarsi ad una vita ordinaria: a pochi anni dal termine della carriera sono molti quelli che hanno dissipato tutto o in parte ciò che hanno guadagnato. Negli Stati Uniti si è dato il caso di un atleta che ha ‘perso’ un capitale complessivo di 100 milioni di dollari. Oltre oceano di conseguenza già da alcuni tempi sono nate delle agenzie di gestione del patrimonio che aiutano questi ragazzi a gestire le loro fortune. La difficoltà di adeguarsi agli standard di persone più comuni è a mio avviso collegata alla difficoltà di accettare il sopraggiungere di una nuova fase di vita, e in definitiva una diversa identità. Perché si sa, soprattutto da molto giovani si corre il rischio di identificare se stessi con il ruolo che si ricopre. 

Rischio depressione

Marco Tardelli una volta venne presentato da un conduttore televisivo come ‘un ex campione del mondo’. Il famoso commentatore rispose piccato, dicendo che lui e i suoi compagni del 1982 sono tutt’ora campioni del mondo, non sono degli ex’. Il conduttore accettò la correzione e tra gli applausi del pubblico si scusò, riconoscendo in fondo il debito di passione che gli italiani devono a quei ragazzi, ma l’esempio è piuttosto calzante. Per quale motivo è così difficile accettare di essere ‘ex’? La condizione sociale, la reputazione, diciamo pure la popolarità che le imprese sportive garantiscono agli occhi del pubblico sono la parte più difficile da sostenere. Molto più difficile del successo economico. Quando parlavo di identità mi riferivo a questo. Passare da sentirsi osannati, avere onori, sconti al ristorante, ecc… a vivere una vita quotidiana come tutti, fatta di code, multe, bollette e via dicendo, è la cosa più pesante per chi è stato una star. 

Ogni anno il pubblico elegge un nuovo beniamino, e degli ‘ex’ si dimentica un pochino di più. Così il dilemma sull’identità si fa più pesante, perché diventa un dilemma sul valore. Quanto valevo? Chi era il più bravo? E soprattutto, quanto valgo oggi? Siamo così passati alla genesi della depressione: e infatti non di rado questi personaggi si trascurano, o addirittura tentano il suicidio. Quando la gloria sfuma, e la star diventa una persona come le altre, al rischio di finire in povertà si aggiunge il rischio di entrare in una spirale di autocommiserazione e autodistruttività. E’ a quel punto che occorre essere dei veri campioni.  

Psicologia ambientale: l’uomo in montagna. (Svolta green e turismo consapevole)

Lo stato d’animo influenza l’ambiente. Per questo bisognerà ripensare anche al turismo

L’egocentrismo narcisista fa dell’uomo il padrone della natura. Lo vediamo nel turismo di massa, (o d’assalto) privo di etica, il cui fine è unicamente ludico. Non c’è relazione con il luogo visitato, non c’è interesse per la sua conservazione (non c’è in vero, necessariamente, un intento distruttivo, ma che si debba negare che ci sia è già un paradosso).

La svolta green ci impone ci ripensare anche al turismo, al tipo di rapporto che abbiamo con i luoghi che visitiamo. La psicologia ambientale ci insegna che le condizioni ‘ambientali’ influiscono su di noi più di quello che crediamo, e così sarà vero anche il contrario: il nostro stato d’animo, il nostro atteggiamento, influenzano l’ambiente in cui ci muoviamo.  

Ce ne accorgiamo in alcune drammatiche occasioni, quando il rapporto con la natura sfugge di mano, e da padrone l’uomo si scopre ospite indesiderato. La mia riflessione non è moralista, (ovvero etica) ma è di carattere psicologico. C’è un atteggiamento dietro ad ogni azione che compiamo, e questo atteggiamento determina in gran parte l’esito di quella azione. Faccio un esempio: un ragazzo va in discoteca e invita a parlare una per volta tutte le ragazze presenti nel locale. In questo caso il suo atteggiamento verso l’esperienza discoteca è molto chiaro. Questo atteggiamento influenzerà fortemente la sua esperienza: quando arriverà l’ora di chiusura, infatti, egli avrà ballato poco, ma avrà fatto molte conoscenze. La stessa cosa è vera anche per il turismo. A Roma normalmente non ci tuffiamo nella fontana di Trevi: sappiamo infatti che non è quello lo spirito giusto con cui si va a Roma. 

Perciò dobbiamo chiederci ‘qual è lo spirito più corretto con cui vivere la montagna?’ (O il mare, i laghi, ecc… .) 

La risposta a questa domanda è una risposta di consapevolezza psicologica, non di etica filosofica. Con quale atteggiamento vado a fare una determinata gita? Cosa mi aspetto da questa esperienza? Faccio come il ragazzo in discoteca o come il turista davanti alla Fontana di Trevi? 

Ecco una situazione in cui svolta green e psicologia si danno la mano per migliorare il benessere dell’individuo, della società e dell’ambiente. 

Il mio ultimo libro

Il Kintsugi dell'anima

Una raccolta di scritti brevi che offre speranza e crescita personale, affrontando temi universali come famiglia, lavoro, sport e attualità. Invita i lettori a scoprire opportunità di miglioramento anche nelle difficoltà, trasformando la fragilità in forza.