Ci siamo, la notizia è arrivata: i Beatles e i Rolling Stones suoneranno insieme.
Al di là dell’aspetto simbolico, che certamente dividerà ancora una volta gli appassionati, e delle sue inevitabili ricadute economiche, però, questa indiscrezione cela una verità molto inquietante, che vorrei mettere in evidenza. Non tanto per parlare di loro, ma per dire, come sempre, di cose che riguardano ciascuno di noi.
I saw her standing there
Gli anni Sessanta sono stati l’adolescenza della nostra epoca. Nel 1961 è stato alzato il muro di Berlino, nel 1969 è arrivato l’allunaggio. In mezzo: J. F. Kennedy e Marilyn Monroe, il Concilio Vaticano II, la diga del Vajont, il sogno di Martin Luther King, i trapianti di cuore, il Concorde. E, ovviamente, la musica dei Beatles.
Se gli anni Cinquanta, ci sembrano lontanissimi, i Sessanta appaiono vicini, perché comprendono cose che fanno ancora parte della nostra quotidianità. Fatichiamo a lasciarceli alle spalle, perché sono simili alla nostra di adolescenza. Anche l’adolescenza, per quanto duri un battito di ciglia, è difficile da superare. Ci ritorniamo sovente con la memoria, e rianalizziamo cose successe e cose che potevano succedere, in un eterno ritorno a luoghi e situazioni che a volte è solo inconcludente fonte di malessere.
La trovata di Beatles e Rolling Stones di suonare insieme è un eterno ritorno di questo tipo. Mick Jagger e Paul McCartney sembrano dirci: l’adolescenza non è finita, anzi, mai finirà. Noi siamo ancora i ragazzi di allora, e proprio come allora siamo qui, in mezzo a voi. Soltanto che (fatta salva l’operazione commerciale, sia chiaro) le atmosfere del Cavern Club non sono più le stesse, perché gli anni Sessanta non ci sono più, e neppure quella ragazza di sedici anni non ha più lo stesso look.
John Lennon newyorkese
Diversa fu, in tempi non sospetti, la posizione di John Lennon. Il Nowhere man stabilì che come uomo e come artista l’adolescenza era finita. Aveva dimostrato di saper fare un album all’anno, di saper vendere milioni di copie, di essere diventato una star internazionale. Ma la vita andava avanti, c’erano altre battaglie da combattere, l’arte non poteva fermarsi al cancello di Strawberry Field. Così John Lennon lasciò tutto e partì per New York, portandosi dietro da Liverpool soltanto la sua fame di arte, di provocazione, di novità. Furono buoni i risultati? Non sta a me dirlo. Fu felice Lennon? Senza dubbio sì. E cosa volete di più?
Invece voglio chiedermi se sia felice un uomo che pensa ancora a quella ragazza di sedici anni, a quando la vide per la prima volta, a quando ci ballò insieme.
E (fatta salva l’operazione commerciale, sia chiaro) si ostini a ribadire che è tutto come allora, perché i vent’anni non sono mai arrivati.
Così, non l’avrei mai detto, mi trovo a difendere John Lennon, il suo lucido cinismo, il suo sguardo rivolto unicamente al futuro. Non credo che approverebbe l’operazione nostalgia Beatles – Rolling Stones, che sa di un passato lontano, oggi troppo lontano.
E non l’approverebbe anche perché in fin dei conti riterrebbe entrambi Beatles e Rolling Stones sue creature.
Ma questa è un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta.